Già Fondatore e Direttore Laboratorio Genetica-ISPRA
Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali, Università Bologna Università Aalborg, Danimarca
L’anno scorso si è concluso il primo decennio dichiarato dall’ONU sulla biodiversità (https://www.cbd.int/2011-2020/). Erano previsti convegni ed altre iniziative, scientifiche e divulgative, per fare il punto sullo stato della biodiversità mondiale e l’applicazione della Convenzione sulla Biodiversità (CBD). Purtroppo la pandemia da coronavirus – fra i tanti disastri che ha combinato – ha anche distolto l’attenzione dai temi della biodiversità. Tutte le iniziative legate al decennio 2011-2020 sono state posticipate e dovrebbero tenersi nel corso quest’anno. Il principale obiettivo è di dichiarare un successivo decennio 2021-2030 e identificare target molto ambiziosi da raggiungere entro il 2030 per tutelare la natura ed il funzionamento degli ecosistemi.
In questa prospettiva, abbiamo deciso di promuovere una serie di eventi per il Darwin Day 2021 sul tema Darwin e la Biodiversità.
Charles Darwin è noto soprattutto per la teoria dell’origine delle specie tramite selezione naturale, ma il darwinismo e l’evoluzionismo biologico sono alla base della conoscenza e conservazione della biodiversità. Tutti gli studi pubblicato da Darwin contengono esempi, casi di studio e descrizioni, talvolta semplici, ma anche molto suggestive, delle complesse relazioni funzionali che legano gli organismi viventi (la cui variabilità chiamiamo biodiversità) in quelle complesse reti funzionali che chiamiamo ecosistemi. L’evoluzione è divergente: le popolazioni e le specie evolvono diversificandosi. Così l’evoluzione utilizza e contemporaneamente origina la biodiversità. Ma nessuna popolazione e nessuna specie evolve da sola. Complesse interconnessioni di predazione, competizione, ma anche di simbiosi, mutualismo e cooperazione legano le popolazioni in reti di interazioni con altre innumerevoli specie (microorganismi, vegetali, animali), senza le quali nessuno potrebbe sopravvivere e continuare ad evolvere. Perciò la Biologia della conservazione ha come obbiettivo fondamentale la conservazione di popolazioni, specie ed ecosistemi funzionali, per far sì che l’evoluzione biologica possa continuare anche nel futuro. Ed anche questo è darwinismo!
La biodiversità non è mai stata così a rischio come in questi anni. Lo sviluppo economico e demografico degli ultimi decenni è avvenuto a spese del patrimonio naturale. Tutti gli istituti e le organizzazioni internazionali incaricate del monitoraggio dello stato della natura sono concordi nel sostenere che il 68% delle popolazioni di vertebrati terrestri e di acqua dolce sono significativamente declinate degli ultimi 50 anni e che ora un milione di specie vegetali ed animali sono ad immediato rischio di estinzione. Praticamente tutti i grandi ecosistemi terrestri sono colpiti da varie forme di disturbo antropogenico: solo il 23% della superfice terrestre può essere considerato come “wilderness”. Il declino della biodiversità ha conseguenze anche sulle prospettive future di sviluppo economico e sul benessere delle popolazioni umane, pur sempre con grandi differenze a scapito degli strati più poveri, svantaggiati ed emarginati. L’allarme venne lanciato già 50-60 anni fa. Tutte le previsioni, spesso definite “catastrofiche”, si sono puntualmente verificate, a cominciare dai cambiamenti climatici. Ora anche i governi ed i grandi capitalisti-imprenditori mondiali se ne sono accorti: le catastrofi ambientali e lo sfruttamento dei servizi ecosistemici sono diventati anche economicamente insostenibili. Lo sfruttamento delle risorse naturali costa più di quanto non rende. E’ quindi necessario integrare le consuete azioni dirette di conservazione delle specie e degli ecosistemi con azioni, altrettanto urgenti ed efficaci, finalizzate a fermare i cambiamenti climatici, la distruzione degli habitat, il sovrasfruttamento delle risorse naturali marine e terrestri, l’inquinamento e l’agricoltura non-sostenibile.
Le conferenze Darwin Day 2021 a Bologna ci forniranno aggiornamenti sullo stato della biodiversità mondiale e indicazioni per superare rapidamente i rapporti predatori nei confronti della natura a vantaggio di sistemi produttivi e sistemi di valori ispirati ai principi della sostenibilità e dell’ecocentrismo.
* Dottorando di ricerca (PhD student)
MUSE, Museo delle Scienze di Trento
Università di Firenze, Dipartimento di Biologia
Il fallimento della conferenza internazionale sul clima di Madrid ha sollevato l’indignazione di una larga fetta dell’opinione pubblica mondiale. Negli ultimi anni la questione climatica ha assunto una posizione cruciale nel dibattito pubblico e ormai ogni lettore di giornale comincia a familiarizzare con le dinamiche del ciclo del carbonio. Gli eventi climatici estremi, come inondazioni, bombe d’acqua, siccità e temperature anomale si stanno già verificando con frequenza ed intensità maggiore, tanto che anche l’uomo della strada inizia a toccare con mano le conseguenze delle alterazioni climatiche. La sensibilità degli italiani al tema è stata certificata da un sondaggio recentemente effettuato dall’istituto demoscopico SWG, dal quale emerge come il cambiamento climatico sia in cima alla classifica delle apprensioni, selezionato come massimo fattore di preoccupazione dal 51% degli intervistati. Già un sondaggio dell’anno scorso, commissionato dalla Banca Europea degli Investimenti, mostrava come il popolo italiano fosse quello più preoccupato per il cambiamento climatico fra tutti quelli dell’Unione Europea.
Questa tendenza generale si è riflessa anche in un’aumentata copertura mediatica del tema, e in molte persone inizia a farsi strada la convinzione che ci troviamo nel bel mezzo di una crisi climatica. Il dibattito pubblico si è fino ad ora concentrato sulle emissioni di gas climalteranti e di come ridurle trasformando gli impianti di produzione di energia attraverso la transizione alle energie rinnovabili. Spesso a livello giornalistico quando si affronta il tema del contrasto al cambiamento climatico si finisce in un’argomentazione che si avvita verso “il miracolo tecnologico che ci salverà”, il coniglio tirato fuori dal cilindro di qualche ingegnere geniale. Questa visione poco lungimirante non tiene conto di tutte le variabili in campo: siamo sicuri di trovarci in una crisi soltanto climatica?
Quando nel 1497 l’esploratore italiano Giovanni Caboto attraccò sulla penisola canadese che poi avrebbe ribattezzato come ‘Terra nova’, riportò sul suo diario di bordo che il mare era talmente ricco di pesci che era possibile pescarli non soltanto con le reti, ma più semplicemente immergendo dei secchi nell’acqua. Poco meno di 500 anni dopo, nella sera del 2 Luglio 1992 in quella stessa provincia del Canada, centinaia di pescatori inferociti assaltano a spallate la porta della stanza in cui il ministro federale alla pesca, John Crosbie, sta annunciando ai giornalisti il divieto totale alla pesca del merluzzo nordico. Il governo canadese prende atto del collasso totale della popolazione di merluzzo e si vede costretto a bandirne la pesca commerciale, causando la perdita dell’impiego per 37.000 lavoratori e, conseguentemente, il disfacimento di un’intera comunità locale. Ventisette anni dopo, la popolazione di merluzzo nordico non si è ancora ripresa, la sua consistenza resta tuttora ben al di sotto del limite di guardia, ed il suo prelievo rimane consentito soltanto per la pesca ricreativa. Come è stato possibile tutto ciò? Negli anni successivi al 1960 l’introduzione di innovazioni tecnologiche nei pescherecci combinata all’espansione della flotta non ha dato tregua ai merluzzi. Soltanto fra il 1962 ed il 1977 la biomassa della popolazione era calata dell’80%. Purtroppo non si tratta di un caso isolato. Al momento il 60 % delle specie ittiche marine viene sfruttato al massimo della sua capacità rigenerativa ed un ulteriore 33% è sovra sfruttato e di conseguenza declinerà rapidamente nei prossimi anni.
Un gruppo di entomologi americani l’ha battezzato “effetto del parabrezza”: quando negli anni Sessanta si attraversava con l’automobile una strada di campagna il parabrezza si ricopriva di insetti, tanto da dover fermarsi periodicamente per rimuoverli, appena quaranta anni dopo i vetri delle auto che attraversano quelle stesse strade sono intonsi. Si tratta di un aneddoto che molte persone di mezza età possono raccontare, e che è stato misurato e valutato scientificamente in diverse ricerche. Fra il 1989 ed il 2016 un team di biologi tedeschi ha catturato insetti in 63 località agricole della Germania per una ricerca a lungo termine. I preziosi dati raccolti in un intero trentennio hanno certificato un declino catastrofico, equivalente all’82% della biomassa. In questo studio, pubblicato nel 2017, i ricercatori hanno potuto verificare che questa drastica diminuzione riguardava non soltanto le specie di insetti più rare e a rischio di estinzione, ma anche le specie più comuni e diffuse. Gli autori di questo studio hanno imputato questo fenomeno principalmente al cambiamento delle pratiche agronomiche, con una maggior meccanizzazione, eliminazione di siepi, una frequenza più alta e pervasiva dell’aratura, un massiccio utilizzo di fertilizzanti e pesticidi. Conclusioni simili si potevano già ricavare da studi su falene e farfalle della Gran Bretagna, che evidenziavano un significativo declino della numerosità delle popolazioni in due terzi delle specie studiate. In questo caso le cause principali, oltre all’intensificarsi delle pratiche agricole, sono state individuate nella rimozione di boschi, siepi, praterie e nell’espandersi dell’urbanizzazione con la cementificazione del suolo. Questi studi si inseriscono all’interno di una mole di ricerche tendenzialmente concordi nel documentare un significativo, rapido e imponente declino nel numero degli insetti, ed hanno portato la comunità scientifica a parlare di un vero e proprio “armageddon” entomologico. A parte una ristretta minoranza di naturalisti ed appassionati, la maggior parte delle persone prova sentimenti di repulsione nei confronti degli insetti e potrebbe non essere particolarmente colpita da questi dati. Il punto è che gli insetti svolgono un ruolo chiave negli ecosistemi, primo fra tutti quello dell’impollinazione: oltre il 75% di tutte le varietà di piante coltivate richiede l’impollinazione animale. La quasi totalità delle piante a fiore selvatiche è impollinata da animali. Per dirla con il grande biologo Edward O. Wilson gli insetti sono “quelle piccole cose che fanno funzionare il mondo”. Il declino della biodiversità degli invertebrati colpisce anche le specie che vivono all’interno del suolo, depauperando la fertilità dei terreni, in particolare della loro materia organica. Effettivamente i suoli si stanno impoverendo, in particolare quelli agricoli, ed ancora una volta si tratta di un fenomeno che rischia di minare alla base la produzione del cibo per gli esseri umani.
Di tutte le specie vegetali ed animali finora valutate dall’ Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) il 25% risulta a rischio di estinzione: l’equivalente di un milione di specie viventi si estinguerà nel giro di pochi decenni se non verranno messi in atto progetti di conservazione. Molte specie scompariranno prima ancora che gli studiosi le scoprano e le classifichino. Per quanto riguarda il nostro paese i dati delle liste rosse, che valutano lo stato di conservazione delle diverse specie, non sono affatto confortanti: il 31% dei vertebrati italiani è minacciato di estinzione. Scorrendo tale lista non si può non rimanere colpiti dalla presenza di specie fino a poco tempo fa considerate molto comuni, come l’allodola, l’alzavola, l’anguilla, il rospo comune (nomen omen) e persino la passera d’Italia, che fino a pochi anni fa conviveva con gli esseri umani in quasi tutte le città e i borghi della penisola e ha subìto una pesante diminuzione. Il processo va però oltre il rischio di estinzione di alcune specie, perché comprende un decremento generale del numero di individui, e quindi della biomassa, di quasi tutte le specie selvatiche viventi, anche di quelle più comuni e diffuse. Alcuni ricercatori hanno coniato il termine “de-faunazione” per descrivere questo fenomeno antropogenico. In tutte le specie di vertebrati selvatici si è assistito ad una diminuzione media della numerosità del 25 %, dato che sale al 45% per gli animali invertebrati.
Ma quali sono le cause di questa erosione della diversità ed abbondanza della vita sul nostro pianeta? È forse il cambiamento climatico antropogenico il principale responsabile? La risposta è assolutamente no. Il cambiamento climatico è il principale impatto solo per alcune specie, come quelle che compongono o abitano le barriere coralline, quelle che risiedono alle elevate altitudini montane, quelle adattate a regioni aride, o quelle che vivono nell’artico. Senza dubbio il cambiamento climatico impatterà sempre più fortemente sulle specie viventi e sugli ecosistemi con l’andare del tempo, viste le ultime previsioni dell’IPCC, il comitato scientifico delle nazioni unite sui cambiamenti climatici, che prevedono un innalzamento della temperatura media di 1,5 gradi nei prossimi venti anni e di 3 gradi a fine secolo, stanti le attuali tendenze. Ma al momento gli organismi terrestri stanno venendo decimati principalmente dalla distruzione e dalla frammentazione del loro habitat operata dall’uomo, come conferma l’ultimo rapporto dell’IPBES, il comitato scientifico delle nazioni unite sulla biodiversità ed i servizi ecosistemici (molto meno famoso del suo “cugino” IPCC, ma egualmente importante).
Oltre un terzo della superficie terrestre è dedicata all’agricoltura e all’allevamento di animali domestici, superficie strappata alle foreste, alle praterie, alle aree umide. Allorché una superficie di foresta o di prateria viene convertita in terra coltivabile, la biodiversità di quel sistema crolla immediatamente, fino quasi ad annullarsi. L’effetto è ancora più drastico se la conversione porta all’urbanizzazione, e dal 1992 l’estensione delle aree urbane è più che raddoppiata. Attraverso la deforestazione, la bonifica delle aree umide, la cementificazione del suolo abbiamo distrutto e frammentato gli habitat naturali. La crescita esponenziale nel numero di strade ed autostrade ha ulteriormente isolato i frammenti di habitat rimasti, rendendo difficoltoso o impossibile lo spostamento degli individui fra un habitat idoneo e l’altro. Come dimostrato da una ricerca internazionale del 2018, gli animali tendono a muoversi di meno in aree fortemente antropizzate, effettuando spostamenti più a corto raggio, spesso ostacolati dalla presenza pervasiva delle infrastrutture umane e dall’assenza di corridoi ecologici. Se gli individui non riescono a muoversi fra i frammenti di habitat superstiti si interrompe il naturale scambio che mantiene vitali le popolazioni di qualsiasi organismo. Le piccole popolazioni isolate e formate da individui con elevato grado di consanguineità sono destinate a soccombere nel giro di poche generazioni.
Nell’era della globalizzazione e dei mezzi di trasporto intercontinentali, il secondo impatto per ordine di importanza è costituito dalle specie alloctone invasive. Si tratta di specie vegetali e animali che, volontariamente o involontariamente, vengono trasferite dagli esseri umani a migliaia di chilometri di distanza dal loro luogo di origine. Alcune di queste specie trovano nel nuovo ambiente, privo dei loro naturali concorrenti presenti nell’ecosistema originario, le condizioni perfette per diffondersi indisturbate. Queste diffusioni molto spesso avvengono a scapito delle specie native del luogo, che subiscono la “concorrenza sleale” e si avviano verso il declino. Ogni ecosistema locale è formato da una peculiare comunità di specie che si sono adattate alle condizioni ambientali locali e si sono co-evolute nei millenni, convivendo in un equilibrio dinamico. Ogni luogo del pianeta sarebbe perciò naturalmente caratterizzato da un determinato insieme di specie, ma negli ultimi decenni questa unicità delle comunità locali è messa in crisi dalle specie alloctone. Il fenomeno è talmente esteso e rilevante che stiamo assistendo ad una sorta di “globalizzazione della biodiversità”, in cui l’uomo sta rendendo più simili fra loro ecosistemi anche molto distanti, favorendo la diffusione delle specie generaliste, quelle in grado di sopravvivere in un ampio spettro di condizioni ambientali, a scapito di quelle specialiste, adattate a specifiche condizioni locali. I dati di ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale) indicano che la lista delle specie alloctone invasive per il nostro paese è in costante aumento. Solo per citarne alcune: la zanzara tigre, la tartaruga americana dalle orecchie rosse, lo scoiattolo grigio americano, il gambero rosso della Louisiana, il siluro del Danubio, il gatto domestico, l’ailanto. Tutte queste specie, e centinaia di altre, danneggiano le specie native, compromettendone la sopravvivenza.
Dato che il dibattito pubblico si concentra sulle emissioni di gas serra e su come ridurle senza modificare sostanzialmente gli stili di vita è lecito porsi una domanda: se, per ipotesi, riuscissimo a convertire l’intero nostro settore energetico in modo da non renderlo più dipendente dai combustibili fossili le pressioni sulle specie viventi e sugli ecosistemi cesserebbero? In altre parole, qualora fossimo in grado di applicare motori elettrici alimentati da energie rinnovabili a mezzi di trasporto, pescherecci, ruspe, persino aerei e azzerassimo le emissioni climalteranti si fermerebbero automaticamente la sovra-pesca, la deforestazione, la frammentazione degli habitat, la cementificazione, il proliferare di strade e barriere ecologiche, la propagazione delle specie alloctone? Certamente no. Affrontare il cambiamento climatico soltanto con l’utilizzo di tecnologia, ammesso che sia possibile, lascerebbe invariate le pressioni sul mondo vivente e non eviterebbe, da solo, il collasso degli ecosistemi.
Prendiamo l’utilizzo dell’energia eolica: uno studio di quest’anno pubblicato sulla rivista “Energy Policy” ha calcolato il potenziale energetico del continente europeo qualora tutte le aree disponibili e tecnicamente idonee, cioè quasi metà dell’intera superficie del continente, fossero dedicate all’impianto di turbine eoliche. I risultati ad un primo sguardo sono stupefacenti: con una tale massiva installazione di pale eoliche l’Europa da sola sarebbe in grado di soddisfare l’intera domanda energetica mondiale. Fantastico! Ma hanno gli autori di questa pubblicazione considerato l’impatto che una tale gigantesca operazione avrebbe sull’avifauna? Diverse ricerche hanno misurato l’impatto che le pale eoliche possono avere sugli uccelli, e i risultati sono preoccupanti, specialmente considerando alcune fasi delicate come le migrazioni. Senz’altro l’energia eolica può esserci utile per eliminare l’utilizzo di combustibili fossili, ma erigerle ovunque senza tenere in considerazione la biodiversità porterebbe ad un grave danno per le già vacillanti popolazioni di uccelli.
Simili conclusioni possono essere ricavate per quanto riguarda l’energia idroelettrica, considerata da molti un’energia “pulita”. Le dighe causano alterazioni profonde degli ecosistemi fluviali ed ostacolano il movimento degli organismi acquatici lungo i corsi d’acqua. In questo caso esistono misure di mitigazione, come le scale di risalita per i pesci, ma di nuovo edificare dighe in ogni corso d’acqua del mondo per eliminare l’emissione di anidride carbonica causerebbe danni profondi alle comunità biologiche dei fiumi, già sotto pressione per le specie alloctone e l’inquinamento delle acque. Se i pescherecci dotati di sofisticate strumentazioni GPS e celle frigorifere fossero alimentati da energia rinnovabile invece che dal petrolio, sarebbe forse la sovra pesca meno dannosa per la fauna marina? Se le ruspe e le seghe che abbattono le foreste tropicali fossero dotate di batterie al litio sarebbe la deforestazione meno esiziale per le comunità biologiche che le abitano? Anche immaginando che l’umanità si dotasse di fonti di energia che non abbiano nessun impatto diretto sugli ecosistemi, come per esempio la mitica fusione nucleare, se continuassimo ad utilizzare l’energia ricavata contro la biosfera staremmo comunque andando incontro alla crisi ecologica. L’umanità non sta solamente aumentando l’entropia dell’atmosfera terrestre, ma anche quella delle comunità biologiche, e questi due processi vanno considerati insieme. Focalizzarsi sul cambiamento del clima senza tenere presente la perdita di biodiversità può forse essere per molti una visione confortante, perché insita nella visione antropocentrica dell’universo tipica delle culture occidentali, nella quale gli altri esseri viventi non occupano un posto di rilievo. Questa prospettiva è però estremamente parziale e, come abbiamo visto, può portare a escogitare false soluzioni.
Quindi che fare? Una volta messi a fuoco entrambi gli aspetti della crisi ambientale contemporanea, cioè il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità, con un approccio integrato, riconoscendo le cause comuni così come le peculiarità specifiche emerge spontaneamente una soluzione possibile. Si tratta del ripristino ecologico. Laddove gli habitat naturali sono stati distrutti o fortemente degradati è possibile reintegrare l’ambiente originario, ricreando foreste, praterie, torbiere, aree umide. Per ripristinare degli ecosistemi sani è necessario inoltre favorire la presenza di alcune specie animali e, laddove opportuno, reintrodurle. Si ristabilirebbe così la corretta struttura di vegetali, erbivori, predatori, necrofagi e detritivori e di conseguenza si ricreerebbe la naturale dinamica del ciclo degli elementi minerali come carbonio, azoto, fosforo e il corretto ciclo delle acque. Ciliegina sulla torta, la rinaturalizzazione degli ecosistemi su larga scala consentirebbe di risucchiare dall’atmosfera grandi quantità di anidride carbonica, trattenendola nei tessuti viventi e nei suoli, consentendoci in un colpo solo di contrastare sia la perdita di biodiversità che il cambiamento climatico. Come se non bastasse, tale operazione, da compiersi impiegando le migliori competenze botaniche, zoologiche ed ecologiche, porterebbe ad ingenti benefici per la salute psico-fisica degli esseri umani, soprattutto se ad essere ripristinati fossero gli ecosistemi agricoli e periurbani, al momento i più degradati.
Un esempio involontario di ripristino ecologico è dato dalla progressiva riforestazione delle aree montane e collinari della nostra penisola: i boschi coprono ad oggi oltre il 35% del territorio nazionale e la loro superficie è raddoppiata rispetto al 1930. Come conseguenza dell’abbandono di queste aree più impervie da parte di milioni di persone che, a partire dagli anni Sessanta, sono andate vieppiù concentrandosi nelle città delle zone pianeggianti e costiere, le foreste hanno recuperato i terreni che erano stati loro sottratti secoli prima. Si è trattato di un processo guidato dalle tendenze socioeconomiche, e non certo di un ripristino ecologico volontario e programmato. Ciononostante, i risultati sono sorprendenti: assieme al bosco sono ritornate molte specie animali che fino a pochi decenni fa erano ridotte ai minimi termini, come cervi, caprioli, cinghiali, camosci, lupi, istrici e moltissime altre.
Esiste oggi la possibilità di restituire volontariamente alla natura vaste aree degradate, come porzioni della pianura padana, una delle aree più antropizzate al mondo, con vasti benefici per il clima, la biodiversità ed il nostro benessere. Sta a noi cogliere questa opportunità.
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Centro di Referenza Nazionale per la Medicina Forense Veterinaria Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Regioni Lazio e Toscana
Il pelo animale (incluso ovviamente quello umano, si tratti di capelli o peli del corpo) è composto di cheratina e di cellule corneificate: la forza di tali elementi consiste nel fatto che non si decompongono facilmente, e per questo motivo il pelo è un substrato ideale per analisi condotte anche su campioni non recenti o variamente trattati e conservati. Ma vediamo più nel dettaglio com’è costituita la struttura del pelo, per esplorare poi i possibili impieghi delle analisi del pelo.
Caratteristiche morfologiche del pelo
Il fusto del pelo è costituito da tre strati (Figura 1), che dall’esterno verso l’interno sono: la cuticola, la corticale, e la midollare. La cuticola è lo strato più esterno del fusto, costituito da scaglie di cheratina trasparenti e sovrapposte che hanno la funzione di proteggere gli strati più interni del pelo.
Le scaglie sono orientate dalla base verso la punta del pelo, ovvero la parte distale di ciascuna scaglia poggia sulla parte prossimale di quella successiva.
Il pelo animale può presentare svariati tipi di cuticola: la forma e la disposizione delle scaglie cuticolari sono uno dei rilievi principali che aiutano nell’identificazione del gruppo tassonomico di appartenenza. La grandezza e la forma delle scaglie variano, oltre che con la specie animale, anche in base alla loro posizione nel pelo: esse si dispongono secondo diversi modelli (pattern cuticolari) che si succedono dalla base alla punta del pelo. Il pattern cuticolare può essere osservato al microscopio ottico o elettronico.
Nel campo della microscopia ottica, generalmente, le scaglie sono di difficile o impossibile osservazione nei preparati in trasparenza, in quanto esse vengono nascoste dalle strutture e dai pigmenti interni al pelo stesso. Pertanto per esaminare la cuticola al microscopio ottico devono essere predisposte delle impronte cuticolari, cioè il disegno delle scaglie viene impresso su resine o altri substrati che ne consentono poi l’esame al microscopio ottico (Figura 2).
Le scaglie possono invece essere esaminate direttamente al microscopio elettronico a scansione, con altissima qualità delle immagini e senza necessità di effettuare stampi del pelo (Figura 3).
La corteccia è lo strato centrale tra cuticola e midollo ed è costituita da cellule corneificate di forma allungata che appaiono all’osservazione microscopica come una massa omogenea priva di caratteristiche distintive. I pigmenti che si trovano nella corteccia sono responsabili del colore dei peli e possono comparire sotto forma di piccoli granuli, grandi masse amorfe o colorazione diffusa. La corteccia è di scarso valore per l’identificazione della specie animale, ma può essere utile nel discriminare un campione di pelliccia tinto artificialmente.
La midollare occupa la parte centrale dei peli ed è composto da cellule frammiste a spazi pieni di aria. Le cellule e gli spazi d’aria tra di esse sono responsabili del caratteristico aspetto del midollo, che si rende visibile all’osservazione microscopica quando il pelo è montato con un mezzo liquido (ad esempio acqua o paraffina) che penetra negli spazi d’aria. Ad un’osservazione diretta del pelo il midollo appare invece generalmente come una struttura opaca e indefinita, soprattutto in certi gruppi di animali, come i Carnivori (Figura 4).
L’analisi morfologica del pelo viene effettuata a livello macroscopico (sia a occhio nudo che con l’ausilio di un microscopio stereoscopico) e microscopico (microscopia ottica e microscopia elettronica a scansione, SEM).
I risultati che possono essere raggiunti con questo tipo di analisi sono sostanzialmente tre:
1) in presenza di una fibra di natura sconosciuta, si può effettuare la distinzione tra una fibra di origine animale e fibre di altra natura (vegetali o sintetiche),
2) in presenza di una fibra di natura animale, si può effettuare la distinzione tra pelo animale e pelo umano,
3) in presenza di pelo di animale infine si può effettuare l’identificazione tassonomica, anche nota come MIAH: Morphological Identification of Animal Hairs.
L’analisi dei peli nelle scienze forensi
L’analisi di campioni di pelo a scopo forense è una pratica di indubbia importanza in caso di crimini contro la persona. In questo contesto il pelo ed i capelli sono considerati come class evidence, ovvero prove che riconducono ad un gruppo di soggetti che condividono le medesime caratteristiche. Nel caso sia presente il follicolo pilifero, e possano quindi essere condotte indagini genetiche, il pelo può anche costituire individual evidence, ovvero consentire l’identificazione di un singolo soggetto.
In ambito forense è anche importante sottolineare come il pelo possa facilmente essere trasferito per contatto tra animali, persone e superfici. Si identifica un trasferimento primario (primary transfer) quando il pelo è trasferito per contatto direttamente da un soggetto ad un altro, ed invece un trasferimento secondario (secondary transfer) quando il pelo passa da un soggetto ad una superficie, dalla quale viene poi trasferito ad un secondo soggetto. Il pelo animale, ad esempio, è particolarmente soggetto al trasferimento di tipo secondario. Questo tipo di prova può essere utilizzato ad esempio per stabilire dei collegamenti fra aggressore, vittima e scena del crimine, sia in campo umano che animale. Esemplare è il caso che, nel 1994, ha coinvolto il gatto “Palla di Neve” nella risoluzione di un omicidio. L’identificazione individuale dei suoi peli tramite il test del DNA ha permesso infatti di assicurare alla giustizia il colpevole dell’assassinio di una donna, collegandolo in maniera indiscutibile alla scena del crimine.
Le analisi che possono essere condotte sul pelo rientrano in 3 categorie principali, spesso complementari tra loro:
analisi fisiche: esame macroscopico e microscopico, volto a descrivere le caratteristiche salienti del campione di pelo e a paragonarlo con collezioni di riferimento,
analisi chimiche: utilizzate per la ricerca nel pelo di tracce di droghe, tossine o metalli; oppure spettrometria di massa MALDI-TOF per l’identificazione della famiglia, del genere e, in particolari casi, della specie,
analisi genetiche: basate sull’estrazione del DNA dal follicolo del pelo, possono consentire un’identificazione specifica ed individuale se associate al confronto dei dati ottenuti da un pelo incognito con campioni noti e database di riferimento.
L’identificazione della specie di appartenenza del pelo, storicamente impiegata per il monitoraggio dei grandi carnivori in ambito zoologico, è oggi essenziale in campo veterinario forense per identificare l’origine di quei prodotti il cui commercio sia regolamentato o proibito (ad esempio pellicce), ma anche in casi di bracconaggio, di predazione o in generale di reati ai danni degli animali.
L’analisi morfologica del pelo risulta un metodo rapido ed efficace per lo screening e la determinazione di appartenenza ad ampi gruppi tassonomici (ad esempio le Famiglie). Per raggiungere un livello di identificazione a livello di specie animale tale analisi può essere affiancata da metodiche analitiche più sensibili ma costose, quali quelle molecolari oppure di spettrometria di massa.
Un approccio combinato per l’identificazione delle pellicce animali
Il Regolamento (CE) n. 1523\2007 del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’11 dicembre 2007, in applicazione dal 31 dicembre 2008, vieta la commercializzazione, l’importazione nella Comunità e l’esportazione dalla Comunità di pellicce di cane e di gatto e di prodotti che le contengono. Poiché la maggior parte delle pellicce di cane e gatto proviene da paesi terzi (generalmente dal mercato asiatico), l’obiettivo primario del Regolamento UE è quello di impedire l’ingresso di importazioni commerciali illegali di tali prodotti da paesi terzi.
L’Italia, con norma nazionale (Parlamento Italiano, legge 20 luglio 2004, n. 189), aveva già adottato disposizioni che stabilivano il divieto di commercializzazione e produzione nel territorio nazionale di pelli, pellicce, capi di abbigliamento e articoli di pelletteria costituiti o ottenuti in tutto o in parte da pelli o pellicce di cani e gatti. In caso di violazione di tali disposizioni, la norma aveva previsto sanzioni penali, nonché la confisca e la distruzione dei prodotti stessi.
L’applicazione e l’efficacia del Regolamento europeo e della Legge 189/2004 dipendono pertanto dalla possibilità di condurre analisi affidabili e ripetibili per identificare la presenza di peli di cane e gatto nelle pellicce. In particolare è necessario disporre di una metodica in grado di distinguere le pellicce e le pelli di cane e gatto da quelle confezionate con specie di cui è legalmente consentito l’utilizzo.
A questo scopo è stata recentemente pubblicata la proposta di un metodo combinato, sviluppato dal Centro di Referenza Nazionale per la Medicina Forense Veterinaria dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale Lazio e Toscana (CeMedForVet, http://www.izslt.it/medicinaforense/) nell’ambito del progetto di ricerca corrente IZSLT 1311 finanziato dal Ministero della Salute.
Il Regolamento CE 1523/2007 prevedeva l’impiego di tre metodiche analitiche alternative per l’identificazione delle pellicce di cane e gatto: l’analisi molecolare (ovvero il/i test del DNA), la microscopia (l’analisi morfologica del pelo) e la spettrometria di massa MALDI-TOF (l’analisi chimica delle cheratine che costituiscono il pelo). Al momento dell’emanazione del Regolamento non erano però disponibili dei protocolli di identificazione delle pellicce standardizzati per queste due specie e condivisi dai diversi paesi europei, nonché dalla comunità scientifica internazionale.
La distinzione delle pellicce di cane e gatto da quelle di altri animali simili morfologicamente e/o geneticamente è piuttosto difficoltosa e i motivi sono di natura sia biologica che tecnica. Risulta infatti problematico distinguere alcune specie appartenenti alla stessa Famiglia (cioè all’interno dei canidi e dei felidi), ed il cui utilizzo per il confezionamento di pellicce è invece permesso dalla legge (come ad esempio la volpe o il cane procione).
Nel corso del progetto di ricerca, è stata messa a punto una procedura che evidenzia la presenza di cane e gatto in campioni di pelli e pellicce attraverso l’applicazione combinata di due delle tre metodiche ufficiali previste dal Regolamento, ossia l’esame microscopico del pelo e l’analisi molecolare del DNA. Il workflow consiste in due fasi. Inizialmente viene effettuata la preselezione dei campioni su base morfologica microscopica, tesa a determinare l’origine artificiale o naturale del pelo e, successivamente, nel caso di pelo naturale, ad identificare le specie che non hanno caratteristiche del pelo compatibili con canidi o felidi (ad esempio il coniglio o il visone). Questa prima fase di screening morfologico serve per escludere dalle successive analisi molecolari quei campioni che già possono essere identificati al microscopio, con un notevole risparmio in termini di tempo e di costi.
La seconda fase del protocollo consiste nell’analisi del DNA (Figura 5) dei soli campioni compatibili con l’appartenenza alle famiglie Canidae o Felidae, dei quali viene effettuata la determinazione della specie su base molecolare. In particolare, la messa a punto dei test molecolari ha riguardato sia i metodi di estrazione del DNA dai prodotti della concia, sia il disegno di marcatori genetici (di screening e di conferma) per l’identificazione delle specie di canidi e felidi, compresi cane e gatto. Gli stessi marcatori potrebbero essere impiegati in futuro anche per l’identificazione di alcune specie selvatiche di canidi o felidi, qualora il divieto di commercializzazione di pellicce venisse esteso ad altre specie.
I risultati dell’analisi combinata morfologica e molecolare su 25 campioni di campo hanno
dimostrato che il protocollo proposto in questo progetto si è mostrato risolutivo in 21 campioni (quindi nell’84% dei casi).
In conclusione, i principali vantaggi nell’utilizzare questo approccio combinato, sono:
la possibilità di condurre un primo screening morfologico rapido ed economico attraverso l’utilizzo del microscopio ottico, procedendo all’analisi genetica solo per i campioni compatibili con cane e gatto, escludendo le pellicce artificiali e quelle con caratteristiche morfologiche sicuramente riconducibili ad altre specie o ad altri gruppi tassonomici;
la disponibilità di test molecolari sensibili e ad alto potere discriminativo per l’identificazione di specie di canidi e felidi, ideati appositamente per evitare il DNA umano che usualmente contamina per contatto le pellicce e che avrebbe potuto interferire con le analisi.
Le pubblicazioni riguardanti il metodo descritto (e la relativa bibliografia di riferimento) sono disponibili in modalità Open Access ai seguenti link:
Per la parte morfologica:
Mariacher A, Garofalo L, Fanelli R, Lorenzini R, Fico R. 2019. A combined morphological and molecular approach for hair identification to comply with the European ban on dog and cat fur trade. PeerJ 7:e7955. https://peerj.com/articles/7955/?td=wk
Per la parte genetica:
Garofalo L, Mariacher A, Fanelli R, Fico R, Lorenzini R. 2018. Hindering the illegal trade in dog and cat furs through a DNA-based protocol for species identification. PeerJ 6:e4902 https://peerj.com/articles/4902/?td=wk
Riferimenti normativi:
Parlamento Italiano. Legge n.189/04. Disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate. Gazzetta Ufficiale n. 178 del 31 luglio 2004. http://www.camera.it/parlam/leggi/04189l.htm
European Commission. 2013. Report from the Commission to the European Parliament and the Council on the application of Regulation (EC) No 1523/2007 banning the placing on the market and the import to, or export from, the Community of cat and dog fur and products containing such fur.
European Parliament. 2007. Regulation (EC) No 1523/2007 of the European Parliament and of the Council of 11 December 2007 banning the placing on the market and the import to, or export from, the Community of cat and dog fur, and products containing such fur.
luca.lapini@comune.udine.it Museo Friulano di Storia Naturale Via Sabbadini 32, I-33100 UDINE
Lo sciacallo dorato (Canis aureus) è un canide eurasiatico di 12-15 chilogrammi di peso (fig. 1). Molto variabile, raggiunge le massime dimensioni nel meridione europeo con la forma C. a. moreoticus I. Geoffroy Saint Hilaire, 1835, descritta in Grecia ma ormai diffusa in tutta Europa. A meridione Canis aureus raggiunge Israele ma in Africa viene vicariato dal lupo dorato africano (Canis anthus), un piccolo lupo ampiamente diffuso almeno fino al Sudan, col quale è stato a lungo confuso. Canis aureus è incluso nelle liste della Direttiva Habitat 92/43 (All. V), nell’App. III della CITES e in Italia è particolarmente protetto dalla LN 157/92 (si veda anche www.goldenjackal.eu).
*Dipartimento di Scienza della Terra e dell’Ambiente. Università degli Studi di Pavia
* Direttore del Centro Interdisciplinare di Bioacustica e Ricerche Ambientali
*Direttore della Banca Dati Spiaggiamenti
E’ stato finalmente aperto al pubblico il nuovo Museo KOSMOS dell’Università di Pavia. Un Museo nuovo, collocato nel bellissimo Palazzo Botta-Adorno che nei secoli passati ha ospitato grandi personaggi storici e scienziati che hanno insegnato e fatto ricerca di primo piano a Pavia. Fino a pochi anni fa il palazzo ospitava diversi istituti ora trasferiti al più efficiente e moderno Campus. Il nuovo Museo ha molti significati, segue nuovi percorsi non più legati alla mera esposizione sistematica di oggetti e animali inanimati, ma procede per temi, per tempi e per personaggi promuovendo una lettura storica della scienza e dei suoi progressi per far comprendere i processi evolutivi della natura, ma anche quelli della scienza e del pensiero umano. La scienza come viaggio ed esplorazione della natura e dell’uomo.
Kosmos si pone al servizio della città che con l’abbandono delle attività industriali sempre più deve vivere di arte, di cultura, di scienza e di turismo. Università e Ospedali sono i poli più importanti dell’economia della città, ma non possono rimanere avulsi da essa; arte, scienza e cultura sono necessari alla vita dell’uomo e si devono integrare nella vita della città anche in funzione della attrattività turistica. Il Museo si pone quindi come nuovo elemento di sviluppo sia culturale che economico e in tempi di grandi problematiche ambientali si pone anche come strumento di divulgazione e di educazione, per far comprendere quanto importante sia l’ambiente naturale per la vita dell’uomo e di quanto sia importante la ricerca scientifica per capirlo.
Per questo accanto a reperti, testi e modelli, sono presenti anche postazioni multimediali e giochi per i bambini.
Il Museo possiede oltre 480.000 reperti scientifici, di cui soltanto 2300 sono attualmente esposti, accumulati e documentati in oltre tre secoli di attività. Sono materiali raccolti, preparati o donati da grandi scienziati ed esploratori di tempi passati ma anche recenti.
Fra i primi spiccano elementi storici che con il museo rinascono e raccontano storie sconosciute ai più, come l’elefantessa indiana Shanti, donata all’Università da Napoleone o come i preparati di Spallanzani, che proprio a Pavia ha studiato l’abilità dei pipistrelli a volare nella completa oscurità, intuendo il coinvolgimento dell’udito in un sesto sistema sensoriale, il biosonar, definitivamente chiarito due secoli più avanti. Tra le donazioni più recenti spicca la collezione entomologica del Prof. Mario Pavan con oltre 235.000 esemplari raccolti in tutto in mondo che documenta l’esistenza di un mondo della continua ricerca scientifica sconosciuto al grande pubblico.
Non solo i reperti, ma anche le strutture architettoniche raccontano la vita dell’Università, come l’Aula Spallanzani, un anfiteatro ligneo non ancora riaperto al pubblico, la cui struttura detta la forma della sala semicircolare che ospita le mostre temporanee e i “minareti” che in realtà sono le canne di aereazione dei laboratori di Anatomia Umana.
L’apertura di Kosmos è un evento che riattiva e proietta nel futuro una storia che inizia nel 1771 in seno alla riforma dell’Ateneo Pavese ad opera di Maria Teresa e con Spallanzani che lo diresse per oltre 30 anni. Il Museo vanta una tra le più antiche collezioni zoologiche al mondo con molti reperti significativi per il loro valore storico-scientifico. Nello specifico le collezioni di zoologia ammontano a circa 9800 vertebrati e includono reperti dell’epoca di Spallanzani, intere collezioni o singoli esemplari acquistati, ricevuti in dono o scambiati nel corso dell’Ottocento oppure procurati durante i viaggi di esplorazione scientifica nel XIX e XX secolo. Ma a tutto questo fanno seguito anche periodi di declino e di abbandono, che seguono l’altalenante attenzione del mondo politico e culturale verso una istituzione che talvolta risulta obiettivamente difficile traghettare da una percezione di antico e polveroso a una visione moderna capace di legare passato, presente e futuro.
Il Museo stesso ha quindi una sua storia: ha subito spostamenti, ridimensionamenti, è stato difeso durante la guerra, poi sono seguiti anche anni di disinteresse, i materiali sono stati abbandonati al disfacimento, e solo recentemente, in primis grazie alla volontà e alla tenacia di curatori e di tecnici, si è operato un lento recupero dei materiali per portarli a nuova vita. Per diversi anni sono stati “temporaneamente” esposti in un capannone e mostrati con visite guidate grazie a una tenace volontà di mantenere in vita una preziosa risorsa non solo scientifica ma anche e didattica.
E infine, grazie sia alle dirigenze che hanno saputo trovare supporto politico e finanziamenti, che al personale tecnico sempre appassionato, lo sviluppo di una nuova idea di Museo per l’Università e per la città. Kosmos vuole e deve ora essere un nuovo attrattore, collegato alle altre molteplici risorse museali dell’Università e alle risorse storiche e artistiche della città.
Kosmos ha anche degli spazi dinamici dedicati a mostre temporanee che devono garantire dinamicità e vitalità, cercando di togliere l’immagine di staticità che spesso associamo all’idea di museo. Da ora al prossimo gennaio 2020 è allestita, in collaborazione con National Geographic, una mostra sul cambiamento climatico e sul problema della plastica nei mari. Tale problema è connesso ai molteplici impatti dell’uomo sulla biosfera che drammaticamente ci portano a un cambiamento climatico globale le cui conseguenze sono ancora non del tutto comprese, e che sono potenzialmente molto più veloci e drammatiche di quanto si sia finora pensato. In una delle sale del Museo il logo di Kosmos è la grande spirale dell’evoluzione che vede l’uomo come ultima tappa; ma davanti ad esso porrei un grande punto interrogativo. La natura certamente sopravviverà agli impatti dell’uomo, ma non possiamo sapere come, ne se ne saremo ancora parte.
Caporedattore della Redazione Culturale del quotidiano “Alto Adige” di Bolzano
Decidere di intervenire in modo puntuale su un lupo confidente è un fatto gestionale. Persino decidere di eliminare 200 orsi e 11 lupi, come sta facendo il governo sloveno, è un fatto gestionale.
Il riferimento è sempre la sostenibilità del prelievo rispetto alla situazione delle due specie in un determinato contesto. Decidere invece di costruire, e offrire all’opinione pubblica, l’immagine del lupo come Animale sanguinario, come “belva”, è un fatto culturale.
Questa è la strada prevalente oggi in Alto Adige. Una strada che recupera e rilancia stereotipi medioevali sul lupo – dunque prescientifici – e che lo fa in larga misura attraverso un uso spregiudicato delle immagini. Una scelta questa moderna, anzi modernissima in epoca di comunicazione visuale.
Una scelta che ha un solo obiettivo: sovrastare l’opinione pubblica sul piano emotivo sopperendo da una parte alla relativa povertà di contenuti e dall’altra “impedendo” l’esercizio del pensiero critico rispetto alla presenza dei grandi predatori. Da questo punto di vista, il fascicolo sul lupo pubblicato dal Bauernbund – l’Associazione dei contadini altoatesini – il 13 luglio scorso e distribuito con il principale quotidiano di lingua tedesca della provincia, il “Dolomiten”, rappresenta un punto di non ritorno. Diciotto delle 32 pagine sono infatti occupate da pure e semplici immagini di animali – pecore, capre, vitelli, cavalli – predati dal lupo con reiterata ostentazione di budella, sangue, sventramenti, mutilazioni e carcasse.
Una nuance pulp, per dirla alla Tarantino, che punta alla colpevolizzazione, sul piano etico, del lupo e al conseguente disimpegno morale dell’opinione pubblica rispetto a ragionamenti appena più sofisticati e complessi di tutela e responsabilità nella gestione degli ecosistemi. Perchè dopo il Medioevo c’è stato Superquark, questo è il problema. Questo significa che per portare l’opinione pubblica ad odiare il lupo bisogna procedere ad una ristrutturazione cognitiva della sua immagine.
Può sembrare bizzarro, ma il lupo va “disumanizzato”, nel senso che va chiuso qualsiasi canale empatico. I grandi predatori, sin dall’antichità sono portatori di metafore complesse in cui bene e male coabitano. Basti pensare all’araldica dove lupi e orsi sono presenti a profusione, oppure agli animali totemici dove, ancora, il lupo la fa da padrone, o al mito della fondazione di Roma con la lupa che allatta i gemelli. Presso i Greci il lupo era sacro ad Apollo come lo era a Marte nel mondo latino. Lo stesso nel mondo germano-nordico dove Odino e lupo sono quasi sinonimi.
In aggiunta a questo poi è arrivata la scienza, l’attenzione all’ecologia, uno sguardo più obiettivo sui rapporti predatori-prede. Serve dunque un’operazione che cancelli tutto il positivo e che lasci solo il negativo, che tolga il terreno sotto i piedi a ogni possibile empatia, diretta o culturalmente ereditata. Il lupo deve essere “radicalmente altro”, tra uomini e predatori va creata una distanza incolmabile. Va detto che disumanizzazione, colpevolizzazione e conseguente disimpegno morale, sono tappe necessarie e imprescindibili nella costruzione del Nemico. Di un qualsiasi nemico, a qualsiasi latitudine. Ad un diverso livello, sono esattamente gli stessi meccanismi che hanno operato nella Germania hitleriana rispetto alla figura dell’ebreo, o negli Stati Uniti nella rappresentazione del nemico giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale.
A questo va aggiunto un ulteriore elemento: l’individuazione di un fine superiore, che nel caso dei nazisti era la difesa della razza, negli Stati Uniti la difesa della nazione, e nel caso del lupo in Alto Adige è la difesa dell’agricoltura tradizionale o, più semplicemente della Tradizione, percepita come elemento privo di dinamismo, esattamente come la nazione o la razza: eterne e immutabili. Una valore a priori. L’immagine del lupo veicolata oggi dal radicalismo della parte più conservatrice, se non reazionaria, della società altoatesina ci arriva direttamente dal Medioevo (non dall’Antichità, dove il rapporto con questo predatore è sempre stato in chiaroscuro).
Il lupo dei bestiari medioevali è un animale che ama il male fine a se stesso; quando cattura un agnello o un vitello, li tortura prima di farli a pezzi e divorarli: è l’immagine stessa del diavolo che tormenta gli uomini e i monaci prima di precipitarli nel baratro infernale. Feroce e crudele, il lupo ammazza sempre più prede di quante gliene servano per nutrirsi; in questo ricorda i potenti baroni feudali che per pura cupidigia spogliano i contadini di tutto quanto possiedono, pur non avendo bisogno di niente. Per raccontare tutto questo oggi, per riportare in vita questo immaginario, si utilizzano le istantanee cruente delle predazioni, e più cruente sono meglio è.
L’ostentazione strumentale dell’evento predatorio naturale realizza un’iconografia funzionale alla costruzione di una narrazione che deve sostituirsi al ragionamento e all’analisi dei problemi. Che parli alla pancia e non alla testa, che alimenti la paura. Ora, tutto questo se restasse confinato al caso del lupo potrebbe apparire tragicamente folkloristico, ma non è così.
Questo tipo di comunicazione strumentale agisce infatti attraverso gli stessi meccanismi di suggestione che oggi inondano il web e che determinano gli orientamenti dell’opinione pubblica, per esempio sulla questione migranti. La rappresentazione plastica di questo teorema ha avuto la sua più recente celebrazione a Villandro – paesino della Val d’Isarco, sempre in Alto Adige – dove sopra uno dei grandi tabelloni che inneggiano ad un Sudtirolo libero da lupi (“Proteggete i vostri bambini!”) con l’immagine di un predatore che mostra i canini in atteggiamento terrifico, è stato incollato da ignoti un secondo manifesto con una ragazza bianca terrorizzata o infastidita, nauseata al punto da tapparsi il naso, avvicinata in maniera molesta da un ragazzo di colore, il tutto all’insegna del motto “Difendiamoci da lupi e neri”. Dunque il primo no è propedeutico al secondo, con una linea di continuità di cui si accorgerebbe anche un cieco e che sta diventando un tratto strutturale di ampi segmenti delle nostre società.
Ad inquietare ancor più di questo, dovrebbe essere poi il fatto che nessuno fino ad oggi, tra i partiti cosiddetti progressisti, ad esempio, abbia avuto la lungimiranza, la prontezza e la capacità di contrastare e contestare questo modo di agire, questo micidiale meccanismo “culturale” di costruzione del consenso che un pezzo alla volta sta intossicando la politica e i processi decisionali, sdoganando un uso sguaiato e violento del linguaggio e delle immagini finendo con il legittimare azioni illegali o fino a poco tempo socialmente riprovevoli.
E forse non è un caso che in Tirolo, dove il fronte rurale utilizza gli stessi argomenti largamente abusati anche a sud del Brennero, proprio i primi giorni di agosto a Sellrain, nel comprensorio di Innsbruck – dove i lupi si contano sulle dita di mezza mano – sia stata trovata nel bosco la carcassa di un lupo ucciso e decapitato. La Belva finalmente giustiziata.
Come i cittadini del Terzo Millennio si pongono rispetto a temi delicati e complessi al contempo, quali la produzione di cibo e i suoi rapporti con la salute e con l’ambiente
“L’agricoltura sembra tremendamente facile quando il tuo aratro è una matita e sei lontano migliaia di chilometri dal campo di grano.”
Una frase, divenuta poi celebre, di Dwight Eisenhower, prima Capo di stato maggiore dell’esercito degli Stati Uniti, poi presidente per due successivi mandati. Erano gli anni in cui il boom demografico mondiale faceva lievitare la richiesta di cibo, proprio mentre le campagne si spopolavano a favore delle città. Due fenomeni fra loro in contrasto che avrebbero presto condotto agli attuali scenari agricoli, economici e sociali del Mondo occidentale. Scenari divenuti spesso conflittuali, nei quali sono molte più le persone che, appunto, impugnano una “matita” di quelle che adoperano un aratro. Ciò ha condotto a un profondo scollamento fra realtà e percezione delle dinamiche agricole e agroalimentari, perdendosi nel tempo gli ordini di grandezza dei fenomeni globali agricoli e demografici.
Diverse quindi le domande cui dare risposta, a partire dai fenomeni che hanno generato una spasmodica ricerca di naturalità nei cibi e negli stili di vita, ponendosi in dura contrapposizione ad attività produttive divenute invece fortemente tecnologiche, come appunto l’agricoltura moderna. Questa è davvero la macchina di morte che viene descritta, con la complicità dell’industria alimentare e della grande distribuzione, oppure è la recente narrazione mediatica ad aver alterato la percezione popolare dei molteplici rapporti rischi/benefici dell’attuale società? Per meglio comprendere tali dinamiche si è deciso di intervistare Donatello SANDRONI, giornalista e divulgatore scientifico, laureato in Scienze agrarie con dottorato in chimica, biochimica ed ecologia degli antiparassitari.
In un paese caratterizzato da decenni di convergenze parallele e di posizioni manichee su qualsiasi argomento, c’è un punto fisso sul quale tutta l’Italia converge: la bontà del cibo naturale. Il cibo naturale è buono (nessuno mai discuterebbe il suo valore organolettico), il cibo naturale fa bene (nessuno mai discuterebbe il suo valore intrinseco salvifico). L’egemonia del consenso, però, lascia il passo all’angoscia e alla inevitabile polarizzazione delle nostre opinioni quando dobbiamo definire che cosa esattamente sia il cibo naturale. Qualche definizione utile?
Semplicemente, il cibo naturale esiste per lo più nel marketing di chi lo vende. Un pesce pescato in mare può essere considerato naturale, a patto di prenderlo così com’è con una canna da pesca e cucinarselo in padella, che di per sé ha già poco di naturale. Se poi si compra quel pesce al supermercato, bello pulito in un plateau di polistirolo, o magari surgelato, la sua naturalità a mio avviso perde già parecchi punti. Del tutto innaturale invece il grano che abbiamo usato per farci un piatto di pasta, né ha alcunché di naturale una moderna melanzana, un pomodoro, una mela o qualsiasi altro frutto od ortaggio comunemente reperibile oggi sul mercato.
I loro antenati erano completamente diversi, tanto che spesso risultavano immangiabili. Tanto meno può essere considerato “naturale” il vino, moda di recente successo su media e social, dal momento che tale prodotto deriva da una domesticazione selettiva di una pianta rampicante spontanea, la vite, i cui frutti sono stati migliorati nel tempo proprio al fine di essere schiacciati e avviati a processi di trasformazione guidati dalla mano dell’uomo. Sperando peraltro che la mano sia bella ferma, o il vino diventa imbevibile, checché ne dicano certi produttori di vino “del contadino” che hanno la sfacciataggine di spacciare per peculiarità distintive dei gravi difetti olfattivi e organolettici. Da circa diecimila anni, da quando cioè l’Uomo ha abbandonato lo status di cacciatore-raccoglitore divenendo agricoltore-allevatore, tutti i vegetali coltivati e gli animali allevati sono stati soggetti a una profonda e continua selezione nel tempo al fine di essere più adatti ai nostri bisogni.
Nessuno oggi riconoscerebbe il mais nel Teosinte centro americano da cui deriva. Anche i nostri amati cereali, perfino i più tradizionali, sono stati modificati. Non solo con la semplice selezione, già di per sé alterazione mirata e continua delle genetiche ancestrali, ma anche applicando tecniche più recenti di manipolazione genetica tramite radiazioni o sostanze mutagene al fine di ottenere individui mutanti portatori di caratteri a noi più utili. Il triticale, per esempio, è l’incrocio tra frumento e segale. Qualcosa che in natura avrebbe la probabilità di avverarsi pari a una su incalcolabili miliardi. Noi abbiamo invece usato su di essi un alcaloide, la colchicina, e questa ha raddoppiato il materiale genetico dell’organismo derivante dall’incrocio “contro Natura”, rendendolo fertile. Eppure il triticale si vende anche nei negozi biologici e pure a caro prezzo.
Ciò che lascia basiti è che ai cittadini sono stati mostrati questi cereali come “naturali” e addirittura “biologici”, mentre gli Ogm vengono descritti come catastrofici mostri di Frankenstein. In realtà è da molto tempo che coltiviamo e mangiamo organismi geneticamente modificati per mano dell’Uomo, sarà bene accettarlo. E pensi, alcuni di questi organismi, come appunto il succitato triticale, sono coltivabili perfino in biologico. Per lo meno stando alla normativa attuale che, per assurdo, non li classifica come Ogm. Cosa che potrebbe però cambiare se l’Unione europea legifererà coerentemente a quanto deciso circa un anno fa dalla Corte di Giustizia in tema di biotecnologie. Rivoluzionando infatti lo statu quo, secondo la Corte vanno considerati Ogm tutti gli organismi ottenuti alterandone il DNA in modo artificiale. Tutti, indipendentemente dalle tecniche usate: che sia tramite il modernissimo genome editing o usando l’ormai noto trasferimento di geni da un organismo all’altro, i famigerati “transgenici”, oppure ancora che sia tramite radiazioni o sostanze mutagene. Tutti Ogm. Se lo immagina quanti prodotti che oggi vantano la scritta “No-Ogm” dovrebbero rinunciare al loro marketing del “senza” se la decisione della Corte di Giustizia divenisse Legge? Personalmente non aspetto altro, dal momento che verso il “marketing del senza” nutro una istintiva antipatia.
Pesticidi e agrofarmaci: qual è la differenza? E anche in agricoltura vale sempre il principio che è sempre la dose che fa il veleno?
Pesticida deriva dall’inglese “pesticide”, cioè uccisore di peste. Messa così dovrebbe essere percepito positivamente. Purtroppo, il martellamento allarmista fatto su questa categoria di prodotti ha di fatto trasformato questo termine in qualcosa di mortifero e lugubre. Agrofarmaco significa la stessa cosa, ma è più asettico perché richiama il concetto di cura. In tal caso delle piante. Ma pensi che a un convegno in cui intervenivo come relatore venni contestato perché mentre i farmaci umani vanno benissimo, perché ovviamente grazie ad essi si curano le persone, suvvia… ma le piante… Come se le piante non si ammalassero e non andassero quindi curate. Il mio contestatore riteneva infatti che questi prodotti non solo fossero pericolosi, ma per giunta inutili.
Una percezione altamente fuorviata che affonda le radici in due distinti fenomeni. Da un lato la popolazione ha ormai reciso da troppo tempo i legami con l’agricoltura e finisce col dare per scontato il cibo che le viene messo a disposizione. Dall’altro patiamo di una comunicazione spesso ideologica – e a tratti disonesta – che prima terrorizza le persone contro i pesticidi e poi le illude che vi siano prodotti alternativi, quasi taumaturgici perché non trattati, intonsi, appunto “naturali”. Di fatto, un secolo fa in Italia avevamo il doppio della terra coltivabile ed eravamo solo 38 milioni contro gli attuali 60. Siamo cioè passati dall’avere oltre seimila metri quadri coltivabili a testa a soli duemila. Per giunta, mentre ai primi del ‘900 il 60% circa della popolazione produceva cibo nei campi, operando in veste di contadini, oggi gli operatori professionali agricoli sono poco sopra l’1%. E questi devono dare da mangiare a tutti gli altri. E già oggi non ce la fanno.
Agli inizi degli Anni 90 l’Italia toccò il 93% dell’autosufficienza agroalimentare. Oggi siamo scesi sotto il 70%. In sostanza, abbiamo quadruplicato la dipendenza dall’estero, con buona pace di chi ostacola le tecnologie agrarie, chimica inclusa, ma poi vorrebbe mangiare solo Made in Italy. Se lo immagina con gli scenari attuali come potrebbero mai fare gli agricoltori a sfamare tutti usando solo zappe, letame e varietà antiche, spesso poco produttive e cariche di problemi, come facevano i loro bisnonni? Dovessimo abolire i pesticidi e i fertilizzanti di sintesi, come da più parti si caldeggia, le produzioni agricole precipiterebbero a picco. Anche perché, dolente ricordarlo, ma anche il Bio usa grandi quantità di pesticidi. Solo che ha stabilito arbitrariamente che quelli che usa lui sarebbero “buoni” perché “naturali”. Quelli “cattivi” li userebbero cioè solo gli “altri”, i non Bio. Niente di più maramaldo come messaggio, perché una molecola è una molecola, indipendentemente dalla sua origine.
Pensi che il rame, ampiamente usato nel biologico, è molto più tossico del tanto vituperato glifosate, l’erbicida ormai alla gogna dal 2015. Secondo le statistiche ufficiali, dati 2016, l’unico agricoltore morto per un’intossicazione durante un trattamento fitosanitario, pensi un po’, è stato ucciso dal solfato di rame. Perché la risposta alla Sua seconda domanda è sì: anche in agricoltura è sempre la dose a fare il veleno, indipendentemente dai prodotti usati. E l’esposizione umana ad essi è del tutto trascurabile rispetto ai grandi benefici che gli agrochimici portano con sé. Del resto, anche un’anestesia dal dentista ha i suoi effetti collaterali, ma sfido chiunque a chiederne l’abolizione…
In sostanza, senza quei prodotti chimici sarebbe carestia, è bene farsene una ragione. Ma carestia di quella dura. Oggi invece possiamo contare su grandi quantità di cibo, abbordabile quanto a prezzi e per giunta sicuro dal punto di vista della salute. Sarebbe infatti bene che la gente leggesse meno gli articoli di media e associazioni allarmiste e consultasse di più i dati ufficiali, sia quelli ministeriali italiani, sia quelli dell’Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare). Dati che confermano anno dopo anno la sicurezza dei cibi che mangiamo. Da tempo vengono invece millantati danni catastrofici a carico della popolazione, magari rilanciando discutibili prove di laboratorio, in vitro o su cavie, cioè non esportabili agli scenari reali. Infatti, se poi si analizzano le statistiche sanitarie ufficiali non si trova alcun riscontro di tali Armageddon sanitari. Peraltro, chi non fosse persuaso di ciò, sarebbe forse utile inviarlo con la macchina del tempo nell’Irlanda di metà ‘800, quando la carestia portata dalla peronospora delle patate causò un milione di morti. Quelli sì accertati, mica millantati. Bastò un solo patogeno, su una sola coltura, e fu una strage dalle proporzioni bibliche.
Invece oggi si campa sempre di più, siamo più alti di 15 centimetri rispetto a un secolo e mezzo fa, abbiamo debellato rachitismo e pellagra. Direi che potremmo anche essere contenti. Al limite, sarebbe cosa intelligente curare meglio la propria alimentazione e i propri stili di vita, perché la cosa assurda è che la maggior parte dei nostri malanni li incentiviamo proprio noi con una vita sedentaria e abitudini poco sane da un punto di vista alimentare e comportamentale. Ma cambiare i propri stili di vita è dura, meglio quindi dare la colpa a qualche mostro di turno. Anche se poi tanto mostro quello non è.
Quindi la naturalità contrapposta ai prodotti della scienza è una percezione irrazionale?
Assolutamente sì. Fra le tossine più letali al Mondo ricadono quella del Clostridium botulinum, della Rana d’oro e del pesce palla. Migliaia o milioni di volte più letali del peggiore pesticida mai inventato dall’Uomo. Anche perché talvolta il confine fra prodotto naturale e di sintesi è davvero difficile da fissare. Dimetomorf, un antiperonosporico ampiamente usato in viticoltura e in orticoltura, è un derivato dell’acido cinnamico, cioè dalla cannella. Mesotrione, diserbante per il mais, è stato ricavato modificando la struttura di una sostanza naturale secreta da alcune piante del genere Callystemon. Queste producono tali erbicidi intorno a sé per fare piazza pulita delle piante concorrenti. Cioè esattamente quello che facciamo noi nei nostri campi coltivati per difendere il nostro cibo. Noi non abbiamo fatto altro che modificarla quel tanto che bastava affinché diventasse selettiva per il granturco, altrimenti avrebbe ucciso anche lui. E questo solo per gli agrofarmaci. Dallo Staphylococcus aureus, un batterio patogeno, è stata estratta una tossina letale per altri batteri, anche verso quelli divenuti ormai resistenti agli antibiotici. Un problema che già oggi uccide al Mondo centinaia di migliaia di persone.
Peccato che quella tossina dello Stafilococco fosse tossica anche per noi. I ricercatori sono però riusciti a modificarla strutturalmente affinché mantenesse la propria efficacia antibiotica, divenendo molto più tollerabile per il nostro organismo. In sostanza, la molecola modificata dall’Uomo è migliore di quella prodotta dalla natura.
Siamo davvero sicuri quindi che naturale sia migliore di sintetico? Forse è spesso vero il contrario, sapendo che negli Stati Uniti sono triplicati i casi, dal 7 al 20%, di persone che si sono danneggiate il fegato, anche gravemente, abusando di integratori vegetali “naturali”. Illusisi che fossero innocui, proprio perché naturali, quelle persone ne hanno abusato arrecandosi gravi danni alla salute. Il sonno della ragione genera mostri…
Una dieta sana si deve basare sui tre principi fondamentali: via pesticidi ed erbicidi, mangiare solo quello che il contadino coltiva con le sue mani, consumare prodotti a km 0. In soldoni questo viene comunicato in molte scuole anche da dietologi e nutrizionisti, in questo caso quindi non siamo di fronte ad una emotività intrisa di amarcord. Che fare?
I famosi ortaggi del contadino erano quelli con cui si prendevano Salmonella, Escherichia e toxoplasmosi, magari crepando pure per il botulino contenuto nelle conserve fatte in casa. Nel 2011 una partita di germogli di soia uccise 51 persone in Germania perché contaminata da Escherichia coli. Ed erano Bio, per somma sorpresa. Anche oggi vi sono saltuari problemi di contaminazione batterica, come nel caso dei meloni alla Listeria che di morti ne hanno provocati sei, ma la loro incidenza è divenuta minima grazie proprio ai controlli maniacali delle filiere agroalimentari legate alla grande distribuzione organizzata. Circa poi la dieta sana, questa si deve basare banalmente su un buon equilibrio di carboidrati, grassi e proteine, animali e vegetali, meglio se contornati da ricche porzioni di frutta e verdura. Non c’è nutrizionista serio che non riassuma il tutto con questi elementari concetti. Tutto il resto è marketing.
Si può avere un’alimentazione assolutamente esemplare e sanissima anche facendo la spesa solo nei supermercati, magari evitando accuratamente ogni prodotto “alternativo”. Non c’è nulla che non vada nei prodotti convenzionali di largo consumo. Sono iper controllati e contengono tutto ciò di cui abbiamo bisogno, a dispetto delle campagne di demonizzazione che subiscono. Provate a prendere un euro e mettetevi di fronte alle cassette dell’ortofrutta. Poi chiedetevi quante verdure e frutti potreste portare a casa con quell’euro comprando prodotti convenzionali oppure “alternativi”. La risposta ve la darete da soli, visti certi prezzi. E l’importante è mangiarne tanta di ortofrutta. Sempre, indipendentemente dal bollino che ci sta appiccicato sopra. Il KmZero è poi meraviglioso quando si è in vacanza in un luogo ameno, ricco di prodotti che di solito non si trovano a casa propria, ma poi per le altre 50 settimane dell’anno? Io vivo nel Cremonese: mi dice cosa trovo a KmZero nei 12 mesi dell’anno se non mais, soia, orzo ed erba medica? Certo, carne e latticini li avrei sotto casa, ma gli agrumi? Le pesche? Il riso? Le mele? Zero. Mi verrebbe lo scorbuto in tre mesi.
Piaccia o meno, il nostro spostamento demografico nelle città ha innescato logiche di filiera agroalimentare basate sul trasporto delle merci dai luoghi di produzione a quelli di consumo. Non è bello, certo, ma al contempo è inevitabile. E tornare indietro non si può, checché se ne dica, a meno di una catastrofe globale che riducesse del 90% la popolazione e ci riportasse ai tempi degli antichi Romani, col bue e l’aratro calcato a mano. Uno scenario che di romantico e bucolico direi che ha davvero poco e che risulterebbe invivibile per la maggior parte dei detrattori dell’attuale agricoltura.
Glifosate e viticoltura è un matrimonio destinato a finire. Quali saranno le conseguenze immediate?
Dal 2015 glifosate è divenuto il parafulmine sul quale scaricare tutto l’astio verso l’agrochimica.
È l’agrofarmaco più utilizzato al Mondo, in più lo ha inventato Monsanto, la multinazionale più odiata in assoluto, anche per aver messo a punto gli Ogm resistenti appunto a glifosate. Insomma, la tempesta perfetta per gli haters di chimica, ogm e multinazionali. La sua caduta in disgrazia, però, è coincisa con la monografia 112 della Iarc, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, la quale ha posto glifosate nel Gruppo 2A, quello dei “probabili cancerogeni per l’uomo”. L’ondata dei media ha fatto il resto. A poco è servito che la stessa Oms, di cui Iarc è una costola, abbia smentito l’Agenzia. Né è servito che ogni autorità di regolamentazione operante al Mondo abbia ribadito la non pericolosità per l’uomo, dal Canada all’Australia, dagli Usa alla Nuova Zelanda, dall’Europa al Giappone: glifosate non è un probabile cancerogeno per l’Uomo, sarà bene accettarlo. Ma ormai la gogna inquisitoria era partita e nulla è valso a fermarla. Una gogna che non si è fermata nemmeno quando sono emerse le inaccettabili relazioni economiche del Presidente di quel gruppo di lavoro, Christopher Portier, con gli studi legali che stavano preparando la lucrosa class action contro Monsanto. Né pare abbia disturbato il fatto che Aaron Blair, coordinatore scientifico di quel gruppo, abbia tenuto nei propri cassetti lo studio epidemiologico più robusto mai fatto su glifosate che dimostrava la sua non cancerogenicità.
Un insabbiamento che visto alla rovescia avrebbe fatto sicuramente urlare allo scandalo, se quella ricerca avesse dimostrato la cancerogenicità dell’erbicida e fosse stato tenuto “misteriosamente” inaccessibile. Perfino il Comitato scientifico del Congresso americano ha chiesto lumi alla Iarc su una decina di strani e inspiegabili cambiamenti dell’ultimo secondo apportati alla monografia 112, girando in negativo dei giudizi preliminari dal neutro al positivo. Modifiche cui Iarc si è sempre rifiutata di dare giustificazione, mostrando in tal modo anche una notevole arroganza. Perché l’indipendenza procedurale è nulla senza la necessaria trasparenza. Insomma, una serie di situazioni del tutto sufficienti a far ritirare quella monografia e rifarla da capo. Magari senza prezzolati consulenti di studi legali fra i presenti. Ormai però l’erbicida è preso di mira un po’ ovunque, venendo bandito ora da questo Comune, ora da quell’altro. Come se l’abolizione di glifosate dalle vigne le potesse trasformare in un rinnovato Eden incontaminato.
In viticoltura, mediamente, su cento chilogrammi di agrofarmaci di glifosate se ne adopera uno. Uno! Altri 69 chilogrammi sono in base zolfo, 11 sono rameici e altri 19 sono prodotti vari di sintesi. In sostanza, anche un viticoltore convenzionale usa per l’80% dei prodotti ammessi in biologico. Togliere quel chilo su cento di glifosate appare quindi scelta meramente demagogica, priva di alcun significato tecnico, ambientale e sanitario. Peraltro, proibire glifosate sulle colline obbligherà a reiterati passaggi con macchine sotto i filari. Tanta terra che verrà quindi smossa, anziché restare compatta, a tutto favore di eventuali erosioni dovute alle piogge. E tanto, tantissimo gasolio in più consumato. E un chilo di gasolio diventa circa tre chilogrammi di anidride carbonica immessa nell’atmosfera. Siamo sicuri che dal punto di vista ambientale sia un vantaggio?
Peraltro, la gente non sa che glifosate continua a restare alla base dei diserbi di grandi arterie stradali e ferrovie. Anche proibendolo nei vigneti, le acque del trevigiano continueranno a mostrare tracce di glifosate comunque. E pure di Ampa, suo metabolita. Peccato che nessuno dica che esso deriva anche da diversi detersivi impiegati nelle case. Un’informazione che, come al solito, è stata fatta circolare dal poco al nulla. Sa che per dare da mangiare a un Italiano per un anno tutti gli agricoltori messi insieme, da Bressanone a Ragusa, applicano alle proprie colture un solo chilo di sostanze attive? Un chilo a testa di agrofarmaci, per mangiare un anno.
Ho fatto qualche conto in casa mia e fra detersivi, prodotti per l’igiene della casa e della persona usiamo oltre 60 litri di prodotti. E siamo in tre. Venti litri a testa, per tenere pulita la nostra vita, per sgorgare i lavandini, per igienizzare water e pavimenti, per lavare i piatti, i nostri vestiti e le nostre persone. E in tre consumiamo circa tre tonnellate di carburanti all’anno con le nostre autovetture. Capite bene che se davvero la popolazione tenesse all’ambiente e alla salute, più che attaccare gli agricoltori qualche domanda dovrebbe forse iniziare a porla a se stessa…
Il rapporto tra l’agricoltura e la biodiversità è un sistema complesso. Quanto vale l’equazione BIO=maggiore biodiversità?
Onestamente? Zero. L’agricoltura è la prima forma di impatto sulla biodiversità operata dall’Uomo. Nel momento stesso che convertiamo in terra coltivabile un ettaro di foresta o di prateria, la biodiversità di quel terreno precipita fino quasi ad annullarsi, indipendentemente da ciò che vi coltiverò dopo, soia ogm o peperoni bio. In più, il 40% delle emissioni di gas serra addossate all’agricoltura derivano proprio dai processi di conversione ad agricoli di terreni selvatici. Il biologico ha rese inferiori a quelle convenzionali e quindi a parità di cibo prodotto obbligherebbe a maggiori disboscamenti e conversioni di praterie, cioè il peggio che possa accadere al Pianeta, ma si è accaparrato furbescamente questa immagine di agricoltura salvifica quando in realtà le pratiche virtuose da seguire sono molteplici e non sono esclusiva di alcuno.
Pensi alla semina su sodo dei cereali. Invece di arare, erpicare e poi seminare, si semina direttamente sul terreno intatto. In studi trentennali svolti dall’Università delle Marche si è visto un aumento drastico della sostanza organica e delle popolazioni di lombrichi nel terreno. Inoltre, sono stati più che dimezzati i consumi di gasolio ed è stata contrastata in modo eccellente l’erosione dei suoli. Peccato che per eseguire tali pratiche serva prima un diserbo con… indovini? Glifosate. Perché altrimenti la seminatrice non riesce ad avanzare in un campo pieno di erbacce.
In sostanza, sono le tecnologie nel loro complesso da finanziare, non solo quelle di specifiche attività agricole. Per aumentare la biodiversità si può peraltro agire realizzando corridoi biologici lungo i territori, come fatto per esempio in Trentino. Dove per biologici non si intende ovviamente “da agricoltura bio”, bensì corridoi che siano funzionali al passaggio di fauna selvatica da un’area all’altra favorendone il ripopolamento e gli equilibri naturali. Oppure gioverebbe trasformare in aree rifugio alcune porzioni di terreno, non necessariamente agricolo, in modo che fra le varie essenze spontanee possano trovare rifugio e moltiplicarsi innumerevoli animali, api comprese.
La biodiversità è infatti faccenda territoriale, non solo agricola. Ci rendiamo conto che a dare addosso all’agricoltura è spesso il cittadino che ha appena impermeabilizzato col cemento una bella fetta di suolo, costruendovi sopra la propria villetta immersa nel verde? Treviso, per esempio, è una delle provincie italiane a maggior vocazione edilizia. Case su case. Strade su strade. Capannoni su capannoni. E il territorio, il paesaggio e la biodiversità la si difenderebbe obbligando al bio i viticoltori? Ma non scherziamo, suvvia. Se continueranno su questa strada presto al posto di villette immerse nel verde ci si troverà con un po’ di verde immerso fra le villette. Però senza glifosate… Una commedia dell’assurdo.
Maggiore Carabinieri Forestali Addetta presso il Coespu alla Cattedra di Polizia per la Tutela Ambientale, Forestale e Agroalimentare
(…) ll crollo delle strutture e gli incendi successivi crearono un’enorme nuvola di polvere e tossine nell’aria sopra la città. La polvere tossica venne inalata dagli abitanti e dai soccorritori finché, tre giorni dopo il tristemente famoso attacco alle Torri Gemelle, Manhattan fu interessata da un forte acquazzone che ne allontanò la parte più consistente della polvere e rese respirabile l’aria.
Punto.
Normalmente a questo tipo di approfondimento del problema si sono mediamente soffermate le notizie e gli infiniti servizi giornalistici sul catastrofico evento. Vero è che il problema ambientale sembrava risibile in confronto alla ricaduta sociale dell’attacco terroristico ma purtroppo non è così.
Arrivò la pioggia si scrisse, in maniera quasi semplicistica… quasi a dire implicitamente l’aria divenne respirabile.
E?
Dove finirono le migliaia di tonnellate di polvere costituita da cemento, materiali da costruzione, metalli pesanti e resti umani?
La pioggia che pulì l’aria divenne un vettore pericoloso che inquinò il terreno e la falda acquifera. In maniera silenziosa l’attacco continuava a mietere vittime, soprattutto tra gli abitanti di Manhattan, senza che il sistema di sicurezza pubblica fosse in grado di mitigarne gli effetti devastanti di amianto, metalli pesanti, fibre di vetro, mercurio, diossina, furano e altri agenti cancerogeni, piombo, benzene nell’acqua e nel suolo.
A distanza di qualche mese venne approvato uno specifico documento per la tutela e la salvaguardia dal bioterrorismo che permise alle città più grandi e alle amministrazioni dei diversi Stati di approntare piani per la tutela e la salvaguardia delle acque. Ma del terreno non parla nessuno.
E cosa ne è stato degli animali e delle piante che sono stati investiti da questa valanga tossica?
Terrorismo ed ambiente: abbinata pericolosa.
Pericolosissima.
L’ambiente che diventa mezzo per creare danno ed insicurezza alla comunità
L’ambiente che diventa strumento di una minaccia asimmetrica.
L’ambiente che diventa finanziatore inconsapevole di guerre del terrore.
L’ambiente degradato quale premessa per radicalizzare idee terroristiche e creare proseliti del terrore tra le persone che patiscono gli effetti di una natura sconvolta da disegni diabolici e vedono l’organizzazione terroristica come valida alternativa, o più drammaticamente unica, alternativa, alla morte.
E in tutti questi casi l’ambiente è la vittima: che non ha voce per lamentarsi.
Da queste riflessioni deriva una ricerca basata su dati oggettivi e su situazioni reali che, purtroppo, sono molte e con esiti più o meno drammatici.
Quali proporzioni ha raggiunto il danno ambientale creato dai pozzi di petroli incendiati durante la Guerra del Golfo?
Quale danno sta perpetrando Daesh all’agricoltura del nord iracheno?
Cosa accade nei campi di addestramento delle milizie di Al-Qaeda dove i campionamenti del suolo, eseguiti dopo lo smantellamento, hanno permesso di rilevare tracce di agente nervino e altre sostanze letali?
E quale scopo avevano le armi chimiche, nucleari e biologiche di cui è stata trovata traccia in alcune zone remote in Afghanistan dove si addestrano i terroristi?
Queste non sono semplici domande ma spunti per riflettere sugli scenari con ricadute disastrose sulla salute umana, sugli ecosistemi locali, sugli habitat di popolazioni animali e vegetali, sulle loro migrazioni forzate e sulla capacità adattativa: situazioni complesse di inquinamento e distruzione che possono riverberarsi in modi anche inaspettati e non prontamente evidenti.
L’ambiente nella sua complessità e nella sua ricchezza è nel mezzo.
Sconvolto molto spesso in quelle che sono le sue strutture elementari che consentono la vita.
Ecosistemi resi inospitali da chi si pone l’obiettivo destabilizzante di traumatizzare le società e governarle con il terrore.
E abusa dell’ambiente.
Sin dalla dichiarazione di San Pietroburgo nel 1899 si è stabilito che “la scelta del mezzo di guerra non è illimitata”: tale affermazione fu ribadita anche con la Convenzione de L’Aia e statuita definitivamente con la risoluzione ONU 31/72 del dicembre 1976 che diede forma e sostanza alla Convenzione ENMOD “Convention on the Prohibition of Military or any other hostile use of environmental modification techniques”.
La guerra non è un campo aperto e infinito – dice la comunità internazionale – ma deve rispettare alcune regole d’ingaggio. Tra le quali anche il divieto di modificazione dell’ambiente.
Ma cosa succede quando il confronto avviene con gruppi armati non riconosciuti istituzionalmente(NSAG)? Cosa succede se il nemico è subdolamente nascosto e agisce senza alcuno scrupolo?
Questa è la minaccia asimmetrica dove l’unica regola è “Non ci sono regole” e ogni mezzo è preso in considerazione, compresi quelli in danno all’ambiente.
Danneggiamento degli acquedotti, avvelenamento delle acque superficiali, distruzione delle colture agricole: a questo si aggiunge la predazione incontrollata di specie animali e vegetali, richiesti nel mercato illegale (avorio, corno di rinoceronte, pappagalli, serpenti, legname pregiato) che diventano fonte di finanziamento per i terroristi.
A fronte dell’attenzione maggiore che i temi e le problematiche ambientali hanno guadagnato anche nei contesti internazionali ci si trova ancora a prendere atto che l’ambiente viene minacciato dal terrorismo e, in misura non molto inferiore, anche dalle attività che lottano contro il terrorismo.
E l’ambiente si trova tra fuochi incrociati, cadendo spesso vittima di fuoco amico.
Da una parte la sproporzione di chi non ha remore ad attentare alla salute umana e agli ecosistemi e dall’altra chi si trova costretto a scendere nella stessa arena per arginare questo fenomeno pericoloso e destabilizzante.
E’ questa una delle tematiche di maggiore rilievo ed attualità: la mitigazione degli effetti sull’ambiente dovuti alle azioni antiterrorismo. E’ necessario infatti che ci sia la precisa coscienza, dal punto di vista strategico, che il contrasto non può avvenire incondizionatamente e a qualunque costo ambientale ma debba salvaguardare ambiente e natura che sono tra i presupposti fondamentali per il superamento di conflitto o post-conflitto.