*Wildlife manager
*Già Direttore del Parco Naturale Regionale Sirente-Velino
*Già Direttore del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna
La tua vita lavorativa coincide con la storia dei parchi italiani. Ti sei scelto un mestiere difficile, molto spesso, dai più, poco compreso. Essere direttore di un’area protetta significa elaborare tattiche e strategie tipiche della biologia della conservazione e lavorare affinché questi stessi principi vengano metabolizzati dai non addetti ai lavori e dal pubblico che quelle aree protette le visita e, a diverso titolo, ne fruisce. Quanto è difficile, seppur gratificante, il lavoro del direttore di un’area protetta in Italia?
Partiamo da una premessa. La mia vita lavorativa è iniziata quando i cosiddetti cinque Parchi Nazionali “storici” già esistevano e cercavano – dove più dove meno – di dare un senso concreto alla loro missione istituzionale, ovvero la conservazione. Congiunzione astrale fortunata fu quella di sviluppare gran parte (1975-1994) della mia formazione professionale al Parco Nazionale d’Abruzzo che, all’epoca, cominciava a configurarsi come il punto di riferimento privilegiato per la positiva ventata culturale-ambientalista che spazzava il Paese. Vento che produsse esperienze come la nascita delle grandi associazioni per la conservazione della natura, della relativa pubblicistica divulgativa e che culminò con l’approvazione – travagliatissima – della Legge Quadro sulle Aree Protette (la 394/91).
La mia esperienza – di studi prima e professionale poi – partì come biologo di campo che si occupava di ricerche su biologia e comportamento, oltre che di gestione operativa, per la conservazione del lupo appenninico e dell’orso marsicano. Parlo di “fortuna” perché, forse, mi trovai ad essere l’uomo giusto al posto giusto nel momento giusto. Ma in tutta la mia vita c’è stato – e c’è ancora – un concreto dualismo, una sorta di schizofrenia oscillante fra ruolo manageriale (biologo/ispettore della Sorveglianza al Parco d’Abruzzo, poi direttore al Parco Regionale Sirente Velino, poi direttore al Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi) e quello del libero professionista/naturalista sul campo (certamente più ricco di emozioni e soddisfazioni), con un target molto ristretto (conservazione dei grandi Carnivori, le cosiddette “specie-bandiera”), ma estremamente assorbente e impegnativo. Durante queste fasi della mia vita sono stato consulente di molte amministrazioni pubbliche – Parchi nazionali e regionali, Riserve, Regioni, Province e altre ancora – su problematiche di tutela ambientale. Ci tengo a puntualizzare questo quadro perché credo che l’esperienza “di campo” sia fondamentale per affrontare le incombenze del ruolo manageriale, del quale parliamo in questa intervista. Almeno nelle Aree Protette.
Il direttore di un’area protetta, specialmente se grande ed ecosistemicamente complessa, significa – lo hai ben sintetizzato tu – adoperarsi sostanzialmente per la metabolizzazione di valori (quelli naturalistici) che non sono così diffuso patrimonio comune. Almeno non in una società, quella italiana, permeata da sensibilità prevalentemente umanistiche. Un esempio? Pensa a quante volte compare sui media il Colosseo e quante l’Orso marsicano, suo equipollente naturalistico! Tutto questo deve poi passare attraverso burocrazie, procedure, rapporti con enti e soggetti che hanno altre priorità, carenze di personale specializzato, disponibilità di risorse e bilanci (analizzando i quali si scopre l’orientamento e l’attenzione degli organi centrali dello Stato…), ma anche, più banalmente, attraverso le sensibilità presenti negli organi di amministrazione dei Parchi (presidenti, Consigli Direttivi et similia) sempre più spesso oggetto di piccole lottizzazioni partitiche.
Mi chiedi se sia difficile, ma anche gratificante tutto questo. Certamente il quadro è assai complesso e non sono rari i momenti in cui ti viene voglia di mandare tutto “a quel paese” per tornare a occuparti direttamente di animali. La gratificazione quale direttore riesci a percepirla se nell’arco del mandato (5 anni: troppo breve!) porti a termine e vedi i risultati di almeno alcuni degli obbiettivi che ti eri prefissato. E’ indubitabile che veder nascere un popolamento di camosci d’Abruzzo o documentare sempre più segnalazioni di orso al parco Regionale Sirente Velino, oppure ancora crescere il popolamento di lupi al Parco delle Foreste Casentinesi, per un biologo di campo “prestato alla gestione” (così mi sento) siano state belle soddisfazioni. Vedere che la percentuale di risorse dei parchi sia sempre più sbilanciata a favore della (pur comprensibile) promozione socioeconomica del territorio mi faceva (e mi fa tutt’oggi) preoccupare moltissimo perché significa una strisciante ma robusta tendenza ad allontanarsi dalla missione istituzionale e prioritaria di questi enti, che è e deve restare la conservazione della Natura.
Probabilmente ci sarebbe lo spazio – e sicuramente ce n’è l’intendimento – per fare dei parchi anche luoghi di promozione culturale a favore dei valori ambientali, quindi, di conseguenza, pure di gratificazione economica degli abitanti. Ma il problema centrale sono le scarse risorse umane e la pertinace volontà dei partiti di fare degli Organi dei parchi appetitose poltroncine per gratificare la piccola politica locale. La eliminazione – già avvenuta – della componente scientifica dai consigli direttivi e le proposte di modifica nella composizione degli stessi previsti nell’ultimo disegno di legge di “aggiornamento” della Legge 394/91 (un aborto che per fortuna siamo riusciti a bloccare in extremis alla fine della XVII legislatura) ne sono un esempio desolante.
Tu parli di tattiche e strategie tipiche della biologia della conservazione. Vogliamo allora parlare dei Piani dei Parchi..? Uno strumento che dovrebbe costituire il vademecum operativo, seppure per grandi linee, che un Direttore utilizza nelle elaborazioni di cui sopra. Ma andiamo a vedere (a distanza di 28 anni dall’approvazione della Legge Quadro) quanti sono i parchi che ne sono dotati: quasi nessuno. Questo significa che assai di frequente il Direttore esercita prevalentemente il proprio ruolo arrampicandosi su specchi piuttosto viscidi e talvolta – se vuole tener fede al proprio mandato – rischiando anche procedure legali in prima persona (quando non guerre intestine con qualche componente del Consiglio Direttivo). Su questi argomenti e sulle responsabilità congiunte di Regioni e Ministero Ambiente (talvolta anche di alcuni Parchi e delle loro rappresentanze collegiali) si potrebbero scrivere volumi interi. Di fatto oggi è ancora così. Se poi arriviamo a parlare dei Presidenti che considerano i Direttori alla stregua di segretari personali (cercando di azzerarne le autonomie decisionali previste dalla legge…..che sia benedetto Bassanini!) si arriva all’en plein.
Le diverse aree protette (dai Parchi Nazionali a Rete Natura 2000) hanno lo scopo di conservare e/o ripristinare la biodiversità e di rappresentare dei modelli e/o dei laboratori per l’attuazione dei principi conservativi nel resto del territorio non protetto. Di là da quelli che sono gli strumenti tecnico-scientifici tipici della biologia della conservazione, le grandi indicazioni politiche sul futuro delle aree protette e sulla conservazione della natura rappresentano la scelta nel mantenimento di strategie operative che hanno raggiunto obiettivi prefissati o decide di svilupparne delle alternative. Com’è cambiata, negli anni, la visione politica a riguardo?
Mi offri lo spunto per affrontare un tema che sottopongo da anni a vari consessi. Credo infatti si debba fare un po’ di chiarezza sul contenuto dei concetti di “conservazione” e, più che altro, “ripristino”, che tu citi e proponi come un assunto obbligato. Non c’è dubbio sul fatto che le aree protette debbano essere istituite là dove c’è ancora qualcosa da conservare, quindi che sia necessaria una fotografia della situazione tale da evidenziare i valori ancora esistenti e per i quali c’é maggior bisogno di specifici interventi (o regolamentazioni) di tutela. Ma “conservazione” significa mantenere lo status quo? Oppure dobbiamo intenderla (non per tutti è scontato) come un quadro dinamico di azioni che favoriscano il consolidamento delle parti più fragili degli ecosistemi? E se questo entra potenzialmente in conflitto con le attività umane, almeno alcune? Un esempio di quanto sia delicato l’argomento è quello del naturale recupero territoriale che il lupo sta realizzando, prima sull’Appennino settentrionale poi, più di recente, sulle Alpi.
Quali strumenti di controllo delle dinamiche popolazionali di alcune specie (animali, ma anche vegetali) è consentito/dobbiamo porre in essere? In qualche caso (per esempio ancora il lupo) si è arrivati a elaborare veri e propri Piani d’Azione (il primo nel 2002, oggi 2019 un altro), ma se non viene previsto un controllo stringente sull’attuazione (Ministero Ambiente…..se ci sei batti un colpo!) e un quadro sanzionatorio per chi deroga (Amministrazioni Pubbliche!) siamo sempre – come dicono i giuristi – ad una “campana sine malleo”, cioè a un esercizio teorico, uno strumento inutile perché privo di efficacia.
Il problema più spinoso però emerge quando parliamo di ripristino ecologico. Cosa si vuole intendere, da un punto di vista cronologico e storico, con il termine “ripristino”? A che epoca vogliamo risalire (e quindi quali obbiettivi vogliamo perseguire) quando parliamo di ripristino degli ecosistemi? Non c’è nessuno strumento legislativo che abbia avuto il coraggio di affrontare questo argomento e non è una questione di lana caprina. Ne stiamo avendo una prova concreta quando parliamo – ancora come esempio – di Ursus arctos marsicanus e di Appennino. Traducendo: fino a quando si parla teoricamente o con taglio divulgativo di protezione di questo rarissimo, prezioso ed evocativo endemismo tutti sono pronti a sottoscrivere petizioni, raccolte-fondi, condanne degli atti di bracconaggio (purtroppo ancora esistenti) stracciandosi le vesti ….e così via. Ma se parliamo (e ne ho parlato, con “delicatissima delicatezza”….ma ne ho parlato e scritto!) di avviare programmi di reintroduzione o ripopolamento (a seconda di quali ambiti territoriali consideriamo), o quantomeno di cominciare a costituire una banca del genoma (una sorta di assicurazione sul suo futuro) del nostro prezioso plantigrado, l’atteggiamento riscontrato è stato di sufficienza, qualche volta di scherno. Talvolta di aperto contrasto.
Nessuno sta pensando di riempire di orsi l’Appennino, ma se si parla di ripristino ed esistono Parchi Nazionali dove l’orso, se adeguatamente protetto, potrebbe tornare (argomento difficile, costoso, tecnicamente delicatissimo, etc etc), io credo che questo dovrebbe essere un tema di assoluta priorità nelle discussioni della politica di questi parchi e nell’impegno delle loro risorse! Viceversa, se si va a monitorare il quadro degli atti deliberativi degli Enti Parco (cioè gli strumenti di indirizzo con cui si orientano le scelte e si decide come/dove spendere soldi) si resta un po’….. sconcertati (è un eufemismo). In percentuale la politica dei parchi è molto più orientata alle sagre del finocchio fritto, ai festival della tarantella o alle partecipazioni a kermesse sul turismo e sui prodotti gastronomici locali (indiscutibilmente ottimi!) che non agli argomenti – anche spinosi, mi rendo conto – del “ripristino ecologico”. Certo, per arrivare a questo, si dovrebbe fare una verifica dei profili di qualità dei Consigli Direttivi……Non si può mettere in mano (per fare un esempio) la ricostruzione di Notre Dame a persone che a malapena sanno che Notre Dame sta in Francia.
Come vedi integro e metto a disposizione le mie esperienze biologo di campo al ruolo di direttore/manager, ma quando mi chiedi se e come è cambiata la visione politica, e quindi se i parchi siano davvero diventati la rappresentazione dei modelli e/o laboratori per l’attuazione dei principi conservativi per il resto del territorio non protetto, direi proprio che siamo ancora in alto mare. Ma continuiamo imperterriti a nuotare (sperando che i nostri discendenti ce lo riconoscano)!
Complessivamente le aree a diverso regime di protezione (dalla categoria Ia alla VI, IUCN) sommate a Rete Natura 2000 in Italia coprono circa il 20% dell’intero territorio. L’enorme sforzo che tutto questo ha richiesto è controbilanciato da risultati conservativi evidenti e tangibili?
Chi vuoi che risponda, il direttore o il biologo-ambientalista? Hai ragione a parlare di enorme sforzo, perché tale è stato e onestamente credo che siano stati raggiunti risultati accettabili e stimolanti. Non mi sbilancio a dire ottimi perché in realtà esiste tutta una serie di carenze che speriamo si riescano a colmare in tempi non lunghissimi, o quantomeno prima che i processi di degrado diventino irreversibili. Mi pare evidente che tutta la battaglia per la tutela dell’ambiente sia una continuo “braccio di ferro” contro il tempo e i sempre più rapidi processi in corso. Sto pensando alla protezione delle nostre coste (del tutto insufficiente), alle connessioni ecologiche (carenti o addirittura inesistenti) fra le aree che godono di una qualche forma di protezione, alla omogeneizzazione di criteri di gestione faunistica e venatoria fra le varie Regioni (una sarabanda annuale che gira attorno ai calendari venatori e ai – ridicoli – livelli di impegno di molte Regioni per far crescere la qualità e la consapevolezza della gestione faunistica, in particolare a supporto delle Aree Protette regionali). Però, di nuovo, il problema e più che altro culturale: mi è capitato di lavorare con ruoli di responsabilità a Piani di Gestione di SIC dove i Sindaci dei Comuni ricompresi consideravano – si capiva chiaramente – la designazione del proprio territorio a Sito di Interesse Comunitario come una tegola in testa, una vera e propria iattura, invece che una sottolineatura dei valori del loro Comune e un investimento per le generazioni future. Detto questo non voglio nemmeno tarpare le speranze, perché pare che tiri un nuovo vento, almeno in Europa (la mobilitazione dei giovani per contrastare i cambiamenti climatici, la crescita delle rappresentanze verdi al Parlamento europeo, almeno per alcune Nazioni…non l’Italia, e così via). Purtroppo, a fronte di queste timide speranze che crescono, non va taciuto il fatto che fino a quando la Nazioni che contribuiscono di più, in peggio, al degrado del Pianeta (USA in primis, ma anche Cina e diverse altre dove si stanno scatenando appetiti) continueranno nella loro tenzone basata in modo esclusivo sulla crescita economica (Trump docet) sarà difficile cambiare orizzonte.
Se è vero che viviamo in un momento di raro consenso “ambientale”, la fatica per l’istituzione di un’area protetta non è cambiata, e porta spesso politici e amministratori a considerarla un traguardo conservativo. Così si confondono mezzi e fini. Come far capire a chi governa che le aree protette sono degli strumenti per raggiungere i diversi obiettivi conservativi preposti?
Ancora una volta dobbiamo sottolineare l’obbligo di passaggio attraverso un percorso di crescita culturale. Fino a quando molti amministratori locali considereranno l’inclusione del proprio Comune in un’Area Protetta semplicemente come un valore aggiunto alla promozione turistica dello stesso non faremo grandi passi avanti. Anzi, c’è il rischio (come sta già avvenendo) che si consolidi un approccio alla conservazione che è tale solo se genera turismo e circolazione di denaro nel breve termine. Non sono un fautore della cosiddetta “decrescita felice” (anche se di qualcosa potremmo tranquillamente fare a meno) e ci tengo a dire che trovo giusto controbilanciare l’apposizione di vincoli e regole “speciali” con l’offerta di opportunità economiche alla popolazione. Su questo non ho dubbi. La situazione diventa però critica nel momento in cui, spesso in modo strisciante (ovvero senza mai dichiararlo apertamente), le priorità vengono a modificarsi; non raramente in conseguenza della nomina di Presidenti e Direttori troppo legati agli interessi locali o troppo facilmente condizionabili. In questi ultimi anni questo sta diventando quasi una regola. Molte sono le condizioni per un raddrizzamento della rotta (che negli anni ’70-’80 sembrava abbastanza ben definita, ora non più). Mi rendo conto che forse sto pensando ai miracoli, ma provo ad elencarne alcune:
- Un Ministero per l’Ambiente molto (ma molto!) più ricco di personale qualificato e adeguato al compito. Provate a verificare quanti concorsi specifici sono stati fatti da quando fu istituito il Ministero (all’epoca “per l’Ecologia”, nel 1986 nacque con questo nome ed era un ministero senza portafoglio, ovvero addetto a filosofeggiare e non ad agire). Credo nessuno. Tutto personale trasferito/mobilitato/ri-assegnato etc. e poi convenzioni con privati (del concetto di società in house abbiamo fatto religione)
- Attribuzione di risorse adeguate al medesimo Ministero, ovvero – nel Bilancio dello Stato – paragonabili a quelle del Ministero per la Salute o a quello per l’Università e la Ricerca.
- Abolizione delle Regioni e ripristino delle Province, ma prevedendo che tutta la competenza in tema di ambiente resti agli organi centrali dello Stato.
- Eliminazione di Regioni e Province a Statuto autonomo
- Predisposizione dei Piani dei Parchi entro due anni dall’insediamento dei Consigli Direttivi prevedendo automatico commissariamento (non subordinato a decisioni opportunistiche, neppure del Ministro/Ministero) in caso di mancata ottemperanza.
- Ridefinizione dei ruoli politici e gestionali con costante monitoraggio del rispetto degli stessi da parte del Ministero Ambiente. Traduco: agli organi politici spetti il compito di definire bilanci e programmi di carattere generale (ovvero quattro-cinque riunioni decisionali l’anno, ma dove i temi della conservazione riguardino il 90% delle decisioni); il resto da affidare esclusivamente al direttore-manager (una sorta di Amministratore Delegato) che risponde dei risultati.
- Totale indipendenza fra le procedure di nomina dei direttori e quelle di presidenti e consigli direttivi. Ma tutte subordinate a verifiche curriculari di assoluta/altissima qualità e trasparenza
- Totale disconnessione fra istituzioni e associazionismo ambientalista, ovvero, traducendo: fino a quando le Associazioni “tireranno a campare” grazie agli oboli, diretti e indiretti, del/dei Ministero/i sarà difficile sperare in una reale indipendenza dei giudizi, della capacità critica e dei relativi modus operandi
Di miracoli in cui sperare scendendo via via nel dettaglio ne mancano davvero ancora molti, ma gli altri volumi li scriveremo in un’altra occasione.
Ti ringrazio Giorgio, a presto.
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