Roberto DELLA SETA*: ruolo dell’ambientalismo nella biologia della conservazione

*Già Presidente di Legambiente e dal 2008 al 2013
  È stato senatore del Pd e capogruppo nella Commissione Ambiente nella XVI Legislatura
  Attualmente presiede la Fondazione Europa Ecologia

 

I recenti risultati delle elezioni europee ci hanno descritto una vera e propria “ondata verde” in quasi tutto il continente a parte l’Italia dove, in assoluta controtendenza, Europa Verde riesce ad ottenere un consenso del 2.4%. L’Europa della solidarietà e un impegno concreto contro la crisi climatica sono stati metabolizzati da molti europei, ma non dagli italiani. Se e cosa non ha funzionato?
In effetti le elezioni europee del 26 maggio hanno visto quasi tutta l’Europa investita da una grande onda verde che ha risparmiato quasi soltanto l’Italia. Ci sono paesi come la Germania e la Francia dove ormai i verdi sono la forza progressista più importante; in Germania (gli ultimi sondaggi li danno addirittura come primo partito), ce ne sono altri, come il Regno Unito, Paesi Bassi, Belgio, Austria e molti paesi scandinavi, dove i verdi hanno ottenuto risultati a doppia cifra sopra, ma anche l’Europa mediterranea con la Spagna e il Portogallo ha eletto europarlamentari verdi.

Le ragioni che vedono l’Italia esclusa dal grandissimo successo dei verdi in Europa sono diverse, ma credo che la principale dipenda dalla inadeguatezza dell’offerta politica ecologista nel nostro paese. I verdi italiani sono ancora quello che erano sostanzialmente 20 o 30 anni fa, un piccolo partito nato dal seno della sinistra radicale.

In tutta Europa i verdi hanno cambiato profilo diventando una forza protagonista di un grande proposta di riformismo green, senza mai rinunciare a nulla dei propri valori direi quasi rivoluzionari, è stata in grado di misurarsi, spesso anche con successo, con la complessità contemporanea delle azioni di governo. Basti pensare  che i verdi governano da tempo e con successo una delle regioni tedesche più ricche industrializzate come il Baden-Württemberg. Questo cambio di passo in Italia non c’è stato e credo che questo sia questa sia la radice dell’insuccesso, del flop ennesimo dei Verdi italiani dei verdi in Italia, naturalmente questo insuccesso è anche la misura di una difficoltà di tutta la politica italiana a fare i conti con la sfida ambientale.

L’inadeguatezza dei verdi italiani si accompagna a quelle delle altre forze politiche tradizionali del nostro paese che sono palesemente più indietro che nel resto d’Europa rispetto ai temi ambientali. I socialisti europei spesso ormai hanno integrato fortemente i temi ambientali nei loro programmi, penso al Regno Unito e alla Spagna, esempi di due grandi paesi europei dove socialisti non solo resistono, ma avanzano.

In Italia, il Partito Democratico, che è il partito del che rappresenta il nostro paese nel Partito Socialista europeo nel gruppo socialista al Parlamento Europeo, rimane ancora molto lontano da questa consapevolezza, così come le altre forze politiche. Un altro esempio è il centro-destra europeo è quello che ha il volto di Angela Merkel che è molto molto più ambientalista di qualunque esponente del partito democratico italiana. Quindi, come vedi, il fallimento della proposta verde in Italia non credo ci sia un problema di arretratezza dell’elettorato italiano rispetto ai temi ambientali.

Gli italiani hanno dimostrato In tante occasioni di essere molto consapevoli e molto sensibili ai temi dell’ambiente; basti ricordare il trionfo del referendum contro il nucleare prima dell’87 e, pochi anni fa, quello per l’acqua pubblica; quella che è mancata è la capacità delle forze politiche di tradurre questa sensibilità di base in offerta politica.

L’elettorato italiano ha tentato altre strade; penso che il grande successo del M5S delle scorse elezioni politiche nasca anche dal fatto che 5 Stelle si fossero caratterizzati fortemente sui temi ambientali, oggi questa strada l’hanno quasi del tutto abbandonata.

Non so come si possa ripartire, ma sicuramente lo si dovrà fare dalle fondamenta;  bisogna prendere atto del fallimento del progetto che ha il nome e il volto dei verdi italiani per avviare una nuova offerta ecologista caratterizzata da una visione e una proposta radicali, ma allo stesso tempo deve essere caratterizzata dalla capacità pragmatica di misurarsi con tutti i temi del governo di una società complessa come la nostra

Penso che oggi difendere l’ambiente non vuol dire più come voleva dire 20 o 30 anni fa resistere alle leggi dell’economia e alle leggi del profitto, ma vuol dire essere in grado  di applicare i principi e i protocolli del Green New Deal che, in Italia e in Europa significa lavorare per la riconversione ecologica delle produzioni e dei consumi. Questa è la strada per ridurre il rischio di una marginalizzazione dell’Europa che sta per diventare sempre di più un’area periferica nello scacchiere globale geopolitico. Siamo in pochi rispetto agli altri continenti e l’unico modo per mantenere un peso importante è quello di continuare ad essere leader nei  processi di riconversione ecologica dell’economia. Non so se questa possibilità in Italia qualcuno saprà raccoglierla Ma io penso che davvero non ci siano alternative.

Come giudichi gli sforzi della politiche ambientaliste nel decennio che l’IUCN ha dedicato alla Biodiversità (2010-2020)?
In Italia il bilancio che si può fare a oggi delle politiche legate al tema della biodiversità non è un bilancio entusiasmante perché nel nostro paese non è entusiasmante il bilancio delle politiche ambientali.

E’ ormai da una decina d’anni in cui le politiche ambientali rappresentano la cenerentola nelle preoccupazioni di chi governa a cominciare dalla scelta di destinazione delle risorse pubbliche. I Parchi Nazionali, e non solo vedono, ridursi anno dopo anno i trasferimenti di risorse dallo stato; oggi possono contare su fondi su stanziamenti che sono molto più bassi per ettaro di quelli su cui può contare la protezione della natura nelle aree protette nel resto d’Europa.

Naturalmente tutelare la biodiversità non passa soltanto attraverso le attività nelle aree a diverso regime di protezione, ma certamente quello è un elemento decisivo,                                         e rappresenta una cartina da tornasole della priorità rappresentata dalle politiche di difesa della biodiversità.

In questi anni, in particolare in Italia, non c’è stato neanche uno sforzo leggero e appena sufficiente per affrontare una delle grandi minaccia per la biodiversità rappresentata dalla crisi dei cambiamenti climatici, che non è più un pericolo proiettato nel futuro, ma è una realtà già oggi molto incisiva; basta misurare i processi di inaridimento del suolo, in particolare nel sud d’Italia e come questo si traduce nel rischio di estinzione di specie animali e vegetali che cambia il volto del nostro territorio.

In questo bilancio, io stesso ho qualche responsabilità così come una parte del mondo ambientalista che non sempre ha saputo compiere quel cambio di passo rispetto al passato. Penso ancora una volta che le politiche ambientali non debbano soltanto resistere alle minacce che pesano sulla biodiversità, dobbiamo capire che tutelare la biodiversità è anche una grande occasione, per esempio, di sviluppo locale.

Spesso i parchi italiani non sono messi nelle condizioni di valorizzare queste opportunità Qualche volta anche perché ci sono associazioni ambientaliste che continuano a privilegiare un’idea di parco, di un’area protetta, di protezione della biodiversità semplicemente come un insieme di divieti, di vincoli, di proibizioni. E questa, credo, che sia una strada che prima o poi bisognerà superare

La biologia della conservazione (branca della biologia che studia scientificamente i fenomeni che influiscono sulla perdita, sul mantenimento e sul ripristino della biodiversità) ha bisogno di scelte politiche che si basino su assiomi scientifici. Come influisce la scienza sulle politiche ambientaliste messe in atto che hanno come oggetto la biodiversità in Italia?
La scienza in Italia non gode di grande popolarità, di grande fortuna, questo avviene in tutti i campi. Naturalmente viene alla mente questioni come quella legata ai vaccini. L’Italia è attraversata, storicamente, da un fiume sotterraneo di diffidenza verso la scienza, che investe anche, in parte, l’azione e il profilo di chi si batte in difesa della natura.

Esiste un ambientalismo antiscientifico, è inutile nasconderlo. Io credo che sia minoritario, anche perché le principali associazioni ambientaliste dal WWF a Legambiente, hanno certamente uno sguardo sulla scienza completamente, ma questo tema esiste.

Credo altrettanto importante, e pesante, sia il fatto che le nostre classi dirigenti sempre di meno sono selezionate sulla base della competenza tecnica scientifica, e in generale culturale.

Oggi questo decadimento della competenza, forse ha raggiunto i suoi livelli massimi. Viviamo in un epoca in cui l’incompetenza è considerata quasi una virtù per chi fa politica o per chi assume ruoli dirigenziali. Oggi l’incompetente in qualche modo è un homo novus, non viene dall’establishment. Ecco, questa condanna della competenza credo che sul nostro paese abbia avuto, e stia avendo, delle conseguenze estremamente dannose che dureranno molto a lungo.

Questo è evidente anche nelle politiche ambientaliste; uno sguardo alle biografie, al curriculum di molti degli ultimi ministri dell’ambiente, o di molte assessori regionali all’ambiente, rende bene l’idea.

Ancora oggi persiste l’equivoco che le aree protette siano l’obiettivo della conservazione e non lo strumento per la sua attuazione, così la maggior parte sono sprovviste di strumenti propedeutici alla loro funzione come i Piani di Gestione e dei loro organi costituenti chiave come quello di Direttore e di Presidente e sono diventate spesso traino di folklore locale. Come pensi dovrebbe essere risolto l’attuale vulnus conservativo italiano?
Sono d’accordo che le aree protette non sono l’obiettivo della conservazione ma ne rappresentano lo strumento. Come sappiamo le aree protette rappresentano la strategia  più importanti per un efficace conservazione della natura e, in Italia, credo soffrano anche di molti limiti.

Quando ero in Parlamento ho provato a proporre e a far approvare un disegno di legge che riguardava proprio alcune modifiche della legge quadro sulle aree protette, che è stata un’ottima legge che ha consentito di ricondurre a forma di protezione più del 10% del territorio nazionale, ma che oggi ha bisogno di essere in qualche sua parte rinnovata.

Per esempio penso che i criteri di nomina dei Presidenti dei Parchi nazionali, che oggi prevedono un’intesa tra il Ministero dell’ambiente e le Regione interessate dal perimetro del Parco; quando manca questo accordo, ci troviamo nella situazione attuale in cui un gran numero di Parchi italiani sono senza Presidente, sono commissariati, e un parco commissariato è un parco che non può funzionare.

Parallelamente  esiste un problema di risorse economiche e finanziarie per i parchi italiani, ma c’è anche un problema di governance inefficace. Come ti ho anticipato viviamo una crisi di grandi incompetenze, così come Presidenti spesso privilegiano figure che non hanno alcun legame con la storia di quel parco, in generale, ma soprattutto con le necessità di una efficace opera di conservazione della natura che è il motivo fondamentale di istituzione di un Parco.

Penso che il processo di manutenzione della L.N.394/91 che preveda il mantenimento di molti aspetti che rimangono attuali, ma che corregga una serie di errori, potrebbe riuscire a mettere in condizioni i Parchi di una governance sicura e a non dover attraversare anni e anni di commissariamento, per poi ottenere strumenti effettivi per coniugare la conservazione della biodiversità a progetti efficaci di sviluppo locale.

Mai come ora le associazioni ambientaliste hanno un ruolo rilevante nella politica italiana, per fare un esempio penso al loro funzione dirimente nei diversi tentativi di approvazione e di attuazione dei vari Piani Lupo che si sono succeduti durante il presente ed i recenti governi. Che ne pensi delle ricadute pratiche di tale protagonismo?
Non so se oggi le associazioni ambientaliste abbiano un ruolo così rilevante nella politica ambientale italiana. Di sicuro hanno un ruolo fondamentale, decisivo e crescente nell’orientare l’opinione pubblica, ma oggi le associazioni ambientaliste (dotate di forti capacità e di conoscenze a disposizione di chi deve prendere decisioni) trovano difficoltà forse crescenti nel dare un contributo utile a queste politiche ambientali che sono totalmente slegate da qualsiasi criterio di competenza.

Per quanto riguarda la politica direttamente legata alle scelte legate alla biologia della conservazione, credo che le associazioni ambientaliste dovrebbero trovare una via comune, cosa che finora non è successa.

Penso, per esempio, al tema del controllo faunistico, materia, da sempre, oggetto di grandi discussioni e di grandi polemiche. Non c’è dubbio che in Italia esista un problema di danni causati da alcune specie di fauna selvatica, ma non c’è dubbio nemmeno che spesso, il tema del controllo viene utilizzato come pretesto per aprire l’attività venatoria anche in aree a diverso regime di protezione, alimentando la “confusione” che esiste tra controllo faunistico e ordinaria attività venatoria.

Come sai bene, come “gruppo dei 30” ci siamo opposti alla modifica della 394/91 (Legge Quadro sulle Aree Protette) così come proposta, e le tue risposte mi hanno solleticato ancora altre domande e confronti più pertinenti sul significato e ruolo della governance delle aree protette.
Grazie Roberto e a presto

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